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mercoledì 30 ottobre 2024

commenti randomici a letture randomiche (89)

sembra proprio che io non possa godermi una settimana di fila senza che si scateni un qualche casino che minaccia di rimettere in discussione la mia vita ancora e ancora.
tutto cambia costantemente e sembra cambiare sempre in peggio, togliendomi ancora più energie e tempo libero, riempiendomi di ansia, rabbia e preoccupazioni varie.
ma, nonostante tutto, sono riuscita a leggere dei libri belli, e ora più che mai scappare dalla realtà rintanandomi dentro a una storia (che non sia la mia!), mi sembra il modo migliore di sopravvivere.
mi sono ritagliata qualche minuto qua e là per raccontarveli un po', si sa mai che magari non piacciano anche a voi.

 la congregazione reale di sua maestà 
bevvero dal calice finché i loro occhi divennero neri, dopodiché lei immerse le dita nella ciotola di tasso e tracciò un pentacolo sulle loro giovani fronti.
e mentre l'orologio del villaggio lontano batteva dolente l'una, cessarono di essere bambine e divennero finalmente streghe.

la congregazione reale di sua maestà è un romanzo d'evasione, sicuramente, che però sa dare bene un'idea di cosa vogliano dire parole come intersezionalità o transfemminismo. nonostante la storia che racconta sia appassionante e coinvolgente - e nonostante le tematiche di cui sopra sono il tipo di cose che adoro trovare in un libro - la prima volta che ho provato a leggerlo mi è toccato abbandonarlo. era un periodo così incasinato e brutto e pieno di ansie e cattivi pensieri che non riuscivo a immergermi completamente delle vicende di niamh, leonie, helena, elle e ciara, e di certo loro non si meritavano un'attenzione superficiale.
mi ha aspettata pazientemente per quasi quattro mesi e poi mi ha rapita completamente, trascinandomi in un'inghilterra alternativa in cui, dai tempi di anna bolena, esiste una congregazione di streghe che protegge il regno e lə suə abitanti, una congregazione che non deve più preoccuparsi dei cacciatori di streghe, di sante inquisizioni e fedeli troppo devotə, ma che non può abbassare la guardia davanti a divisioni interne, scismi e frammentazioni interne varie.

adesso però, la guerra è finita. quel conflitto che aveva distrutto tante vite - quelle di chi non era sopravvissutə, certo, ma anche quelle di chi era rimastə a contemplare le assenze - si era finalmente spento e la crsm sembrava essere entrata in un lungo periodo di pace e prosperità, nonostante alcune streghe avessero preferito fondare gruppi autonomi legati ai movimenti per i diritti civili e sociali di categorie marginalizzate, come la diaspora di leonie, che raccoglie streghe, e stregoni!, bipoc stanche del reiterarsi, anche all'interno della crsm, degli stessi meccanismi di prevaricazione e privilegio delle streghe bianche.
la pace e una sorta di equilibrio traballante tra la crsm e le congregazioni minori e più recenti, però, vengono facilmente messi in discussione da un evento inaspettato, per quanto annunciato dalle profezie già annunciate dalle oracole: un ragazzo - un maschio! - dotato di un potere magico così straordinario e potente da minacciare non solo la crsm ma le sorti dell'umanità tutta.
per quanto gli stregoni esistano, nessun uomo prima di adesso aveva avuto un potere simili, solo le streghe (femmine) erano dotate di simili capacità. per helena, gransacerdotessa della crsm e profondamente legata alla tradizionale divisione tra streghe e stregoni (che hanno una loro confraternita legata alla crsm ma autonoma), l'esistenza di una creatura del genere rappresenta una minaccia assoluta, un errore della natura, un abominio che minaccia la congregazione e ogni singola strega esistente sul pianeta.

se durante la guerra il vecchio gruppo si era sciolto, la nuova minaccia - una creatura che non dovrebbe esistere e che potrebbe liberare il leviatano, uno dei demoni più potenti e pericolosi degli inferi - in qualche modo le riavvicina tutte, facendo il cerchio intorno a helena.
ma theo, questo è il nome del ragazzo, non suscita lo stesso terrore in tutte loro e, anzi, niamh decide di prenderlo in custodia. capito che lui è semplicemente spaventato da un potere che non sa gestire e dalla totale mancanza di informazioni sulla sua stessa natura, niamh decide di diventare la sua maestra, aiutandolo a comprendersi al meglio e a superare i traumi di un'infanzia fatta di rifiuti e abbandoni. ovviamente, questa decisione genera una tensione ancora maggiore tra niamh - che da dopo la guerra si era ritirata dalla crsm - e helena, che esplode nel momento in cui theo rivela di essere in realtà una ragazza. da qui, oltre che intessere una vicenda dai ritmi serratissimi e avvincenti, juno dawson ci regala un'enorme lezione di transfemminismo, dando alla "cattiva" della storia caratteristiche che nascondono - neppure troppo! - il riferimento a una delle peggiori terf della letteratura inglese contemporanea (sì, proprio lei, non vi aspettate che scriva il suo nome perché non credo che si meriti nulla se non l'oblio).

al di là della trama, che vi lascio scoprire autonomamente perché è troppo appassionante e ben strutturata per meritarsi degli spoiler, dawson incarna nelle sue personagge alcuni archetipi femminili moderni attraverso cui raccontare, nel bene e nel male, la realtà quotidiana delle donne di oggi: leonie, fiera del suo essere nera e lesbica; elle, moglie e madre che preferisce distogliere lo sguardo da certe fastidiose verità pur di mantenere inalterata la sua felicità - costruita ad arte - domestica; niamh, che fatica a lasciarsi il passato alle spalle e a ricostruirsi un presente libero dai suoi fantasmi e traumi e, infine, helena, ancorata a delle convinzioni che la rendono cieca e insensibile a qualsiasi cosa che non rientri nei suoi rigidi e infrangibili schemi mentali.

quello che mi è piaciuto di più di questo libro è proprio il modo in cui dawson mostra - senza perdersi in pipponi - quanto siano inseparabili la sfera intima e personale e quella politica e quanto le scelte di chi è al potere, soprattutto se alimentate da un'incapacità di provare a conoscere, comprendere e accettare l'esistenza di qualcosa di diverso da sé, possano portare a disastri catastrofici.

quello che invece mi è piaciuto molto meno è che il finale chiede a gran voce di continuare la lettura del secondo volume della trilogia - the shadow cabinet, a cui poi seguirà il prossimo anno la pubblicazione di human rites, mentre in inglese è già disponibile lo spin off/prequel queen b - che però non è ancora stato annunciato. speriamo che mondadori sappia porre rimedio (magari portandoci tutti gli altri titoli della serie) entro il prossimo anno!

 la migrazione annuale delle nuvole 
non ce l'ho con dio. ma la gente deve essersi infuriata, a quei tempi. no? a vedere tutto quello che amava e che le era caro, tutto quello che trovava bello e buono andarle in pezzi davanti agli occhi; anche se metà o più di quegli eventi era diretta conseguenza dei loro comportamenti, si saranno chiesti perché un dio avesse fatto accadere il resto, perché non l'avesse fermato e fosse rimasto a guardare in silenzio.

credo che ornai sia diventato praticamente impossibile immaginare e scrivere del nostro futuro senza tenere in conto il cambiamento climatico e i disastri ambientali che stiamo provocando sul nostro pianeta. come possiamo immaginare quello che saremo tra una manciata di decenni senza provare a indovinare le conseguenze di quello che oggi stesso è sotto ai nostri occhi?
la migrazione annuale delle nuvole è ambientato in un futuro in cui il cambiamento climatico ha già distrutto non soltanto gli ambienti, ma anche le culture, per come le conosciamo.
niente più industria, sapere tecnologico praticamente perduto, cibo scarso e difficile da coltivare. a questa situazione drammatica - che riprende perfettamente le fila del genere, da la peste scarlatta, passando per la parabola del seminatore e la strada - si aggiunge il cad, un fungo parassita che invade corpi e menti, controllando le azioni e i pensieri dellə suə ospiti.

reid è una ragazza infestata dal cad, proprio come sua madre. vive in un piccolo villaggio in cui ogni energia è fondamentale a provvedere al sostentamento collettivo, un luogo in cui vecchi laboratori ormai inutilizzabili sono diventati rifugi per decine di persone.
il giorno che riceve la lettera di ammissione all'università, in uno degli ultimi avamposti in cui si è riusciti a conservare la civiltà pre-catastrofe - oasi in un deserto di disperazione, create durante la fine dalla parte più ricca della popolazione che quella catastrofe l'aveva causata - per reid si profila la scelta più difficile della sua vita: partire verso l'ignoto, verso un luogo che potrebbe anche essere solo una leggenda, una trappola, abbandonare sua madre all'inevitabile atroce destino voluto dal cad e, insieme a lei, tutto il suo villaggio, solo per seguire il proprio desiderio; o rimanere lì, rinunciando a tutto ma assumendosi ogni responsabilità come membro della comunità?

davanti alla prospettiva della partenza, il rapporto con sua madre si complica e si fa teso, ed è questo il tema centrale del libro, che premee mohamed sa far emergere molto bene e sa raccontare in modo credibile e attento.
la notizia dell'ammissione di reid rompe la diga che da anni teneva a freno i sensi di colpa, da un lato, e le accuse, dall'altro legate al cad: il fungo viene trasmesso di generazione in generazione, ed è stata la madre di reid - che a sua volta l'aveva ereditato da sua madre - ad averlo passato alla figlia, condannandola a non essere pienamente padrona della propria esistenza e delle proprie scelte. per sopravvivere, il fungo protegge lə suə ospite, prendendo decisioni in sua vece al fine di evitare situazioni di pericolo e per continuare a riprodursi, passando di corpo in corpo, senziente abbastanza da voler, probabilmente, colonizzare l'intera umanità.
il legame profondissimo tra le due donne è fatto d'amore, certo, ma non solo. il loro è un rapporto disfunzionale in cui i confini tra il ruolo di madre e quello di figlia si mescolano e si confondono, portando l'una a interpretare quello dell'altra e viceversa.

è per questo che reid, tra restare e partire, sceglie una terza strada: partecipare di nascosto a una pericolosa missione di caccia per garantire - se riuscirà ad avere una buona parte di bottino - a sua madre abbastanza cibo da poter avere delle scorte e poter fare degli scambi, per ripagare la perdita della sua forza lavoro.
ma come fare a partecipare a quello che potrebbe essere un atto suicida con un ospite che manovra il tuo corpo e la tua mente, chiedendoti di fare qualsiasi cosa per non uccidere entrambi?

nonostante l'ambientazione già sfruttatissima e il ruolo non abbastanza centrale dato al cad nella storia, questo romanzo mi è piaciuto moltissimo soprattutto per come mette in scena le dinamiche familiari di reid, il suo rapporto con sua mamma e con il resto della comunità. e se per tutto il tempo sembra di leggere una lunga premessa, è perché la migrazione annuale delle nuvole è solo il primo capitolo di una serie, cosa che giustifica il suo finale così aperto e sospeso. aspetto con ansia il resto della storia!

 cosa si prova 
«sono stata talmente e incredibilmente fortuna che mi sembra quasi troppo per una persona sola. adesso aspetto che arrivi la sfortuna!»

sono tornata a leggere sophie kinsella dopo anni perché venire a sapere della sua malattia mi ha davvero colpita e volevo, in qualche modo, tornare a sentirla vicina. i suoi libri, soprattutto la serie di i love shopping (praticamente l'unico modo in cui sono riuscita ad appassionarmi un minimo alla moda, quel tanto che serve da imparare almeno il nome di qualche brand), anche se non ne leggevo uno da un bel po', mi hanno sempre divertita moltissimo. erano la migliore distrazione nei momenti più difficili e stressanti e in qualche modo mi ero affezionata a becky e quindi, di riflesso, alla sua creatrice.

cosa si prova racconta la storia di eve, una scrittrice che trova l'idea geniale per il suo prossimo romanzo proprio quando, in difficoltà e senza idee, decide di fare una passeggiata e si ritrova davanti a un meraviglioso abito di paillette che la guarda tentatore da una vetrina.
non dovrebbe comprare quel vestito, non dovrebbe spendere quei soldi così d'impulso, non ha un'occasione per indossarlo e non dovrebbe neppure essere in giro a fare shopping, eppure non riesce a resistere. mentre la commessa avvolge l'abito sbrilluccicante, eve butta giù due appunti: scriverà di una ragazza dalle mani bucate che non riesce a resistere davanti a una vetrina troppo invitante.
il suo libro avrà un successo stratosferico e il vestito di paillettes sarà quello che indosserà sul redcarpet alla presentazione del film ispirato al suo romanzo. da quel momento lì, eve diventa una scrittrice di successo straordinario, una fortuna che si aggiunge a quella di avere una famiglia numerosa e piena d'amore. romanzo dopo romanzo, successo dopo successo, la vita di eve sembra essere un sogno, almeno fin quando non si risveglia intontita in ospedale e scopre di essere stata operata al cervello: le è stata rimossa una grossa massa tumorale e il suo futuro è più che mai incerto.

tra fisioterapia, perdita di memoria e messaggi di supporto, eve si barcamena tra momenti di ottimista fiducia nel futuro e altri di totale sconforto, mentre prova a riprendere il controllo del suo corpo e della sua mente. cosa si prova è strutturato in capitoletti brevi, istantanee di vita familiare raccontate con leggerezza e persino umorismo in cui la malattia è presente accanto alla gioia di vivere.

ovviamente, la storia di eve è quella di sophie kinsella, la storia della sua malattia e del modo in cui la sta affrontando. non una battaglia o una guerra - espressione che trovo veramente odiosa e offensiva nei confronti di chi vive situazioni del genere - ma un'imprevedibile sfortuna che da un lato spaventa, dall'altro rende ogni momento felice meravigliosamente luminoso, unico e felice.
non è facile parlare così di un cancro, soprattutto se è un cancro che vive dentro al proprio corpo, ma kinsella c'è riuscita con estrema grazia ed eleganza.
e, anche se non lo sa, leggere questo libro è un po' un modo per avvicinarsi a lei e dirle sì, ci sono. grazie per le risate e i bei momenti passati in compagnia dei tuoi romanzi, non vedo l'ora di leggerne ancora e ancora e ancora.


venerdì 18 ottobre 2024

il libro della scomparsa

«come se il buio li avesse inghiottiti. come se il mare li avesse rapiti». così hai descritto i tuoi giorni e la gente che era stata cacciata via al di là del mare. non hai detto che il numero di abitanti si era ridotto da più di centomila a circa quattromila persone. no, non lo hai fatto. hai detto, invece, che senza di loro non riusciti più a riconoscere la tua città.

leggere il libro della scomparsa allo scoccare del primo anno del genocidio in palestina - l'ultima fase, almeno, del genocidio, la più feroce e palese di settantasei anni di occupazione, l'unico genocidio della storia trasmesso in diretta e comunque ignorato se non addirittura giustificato dalle potenze occidentali - è stata un'esperienza dolorosa quanto illuminante.
al di là della trama, ibtisam azem parla di contrapposizioni assolute: esistenza e assenza, presenza e memoria, parola vibrante e ricordo sepolto.
il diario - contenitore prezioso di memorie lontane - e il giornale - quello che, un giorno dopo, è già carta straccia.
stretti nella stessa fascia di terra, schiacciati da leggi ingiuste e inumane, palestinesə e insraelianə si dividono il medesimo spazio-tempo, coesistono, senza riuscire davvero a vivere insieme, senza che una parte riesca a mostrare la sua verità all'altra, neppure quando tra alcunə di loro si creano dei legami.

alaa e ariel sono, in qualche modo, amici. vivono nello stesso palazzo ma si sono conosciuti per caso a una festa noiosa e, da quel momento, hanno stretto un rapporto che somiglia a quello di tantə altrə, fatto di chiacchiere e scambi di idee. eppure, nonostante abbiano imparato a conoscersi bene e si ritrovino a condividere un legame, non riescono a sintonizzarsi sulla stessa frequenza quando il discorso tocca la questione dell'occupazione, della nakba, di quell'evento che è insieme storia e presente.

è attraverso le loro parole, soprattutto quelle di ariel, che azem ci racconta della scomparsa.
succede in una notte qualsiasi, senza che niente potesse destare sospetti, senza clamore né agitazione. tuttə lə palestinesə dei territori occupati spariscono senza lasciare traccia.
il giorno dopo il paese sprofonda nel caos: scomparsə lə braccianti nei campi, neanche l'ombra di operaiə o autistə, chiusi i bar e i ristoranti. le case sono vuote, le tracce di una quotidianità inspiegabilmente interrotta restano sparse tra i piatti ancora da lavare, nei libri letti a metà, in mezzo alle lenzuola disfatte.
si direbbe che israele ha vinto.
dopo settantasei anni di occupazione, di guerre e di attentati, di trattati più o meno rispettati, di convivenza forzata, di odio quotidiano, il paese intero adesso è suo, lə arabə che da decenni cercavano di cacciare via sono andatə, chissà dove e chissà come.
vittoria! no?
in realtà no.

la scomparsa dellə palestinesə getta israele nel panico, uno stato di paura e agitazione, la sensazione di minaccia è, paradossalmente, aumentata: sono sparitə, sì, ma perché? come? torneranno? e allora cosa succederà? e se non torneranno, cosa dirà il resto del mondo? cosa farà? cosa faremo?
ma soprattutto, se non torneranno, cosa resterà di un popolo che da settantasei anni fa della dominazione di un altro popolo il suo motivo stesso di esistere?
le parole dellə personaggə israelianə, per tutto il libro, sono venate di vittimismo. quello della shoa non è solo il tremendo passato dei loro avi ma il tappeto sotto cui nascondere i crimini di oggi. e se pure di questi crimini lə israelianə non parlano mai apertamente, è facile scorgerli nella paura costante delle ritorsioni, delle cospirazioni che vedono ordite ovunque contro di loro.

occupazione e colonizzazione vengono romanticizzate nelle parole di ariel.
parole, è importante sottolinearlo, perché è lui - ariel - quello che può ancora parlare, quello che è presente. in quelle parole non c'è spazio per termini come sterminio, catastrofe, genocidio, crimine. si invoca un futuro di purezza e pulizia senza esplicitare il paragone tra lə palestinesə e le "impurità" di cui hanno necessità di liberarsi. le parole di ariel sono, per estensione, quelle di tutto il popolo israeliano: stessi termini, stessi pensieri, stessa dottrina.
neppure adesso che il sogno si è realizzato, israele riesce a guardarsi allo specchio e riconoscersi come invasore e colonizzatore:
perché le madri palestinesi mandano i loro figli a tirare le pietre o compiere atti terroristici contro di noi? non capisco perché insistono a venire ogni giorno ai checkpoint e combatterci [...] in base alla mia esperienza come soldatessa, ho la sensazione che ai palestinesi piaccia essere malmenati e torturati oppure picchiare e offendere gli altri. altrimenti non si spiegherebbe il fatto che insistono con tutta questa violenza.
le parole di una soldatessa che risponde a un'intervista sono agghiaccianti, quasi da distopia, eppure - lo stiamo vedendo da più di un anno - corrispondono alla reale percezione dei fatti. l'indottrinamento israeliano è così potente da distorcere la realtà, da creare un sistema tale di pensiero da trasformare la vittima in aggressore e il colonizzatore in vittima.
ma queste storie che ariel e lə altrə israelianə si raccontano sono utili, sono necessarie. hanno bisogno di crederci, hanno bisogno di credersi vittime, di credersi superiorə e civilizzatorə di un mondo arretrato e primitivo. la loro è una fede, rifiutano l'indagine per gettarsi a capofitto della fede cieca a un'interpretazione della storia - recentissima, praticamente della cronaca - per far fronte alla realtà delle cose.
con che coraggio ci si può guardare allo specchio e riconoscersi figliə e nipote di colonizzatori, assassini, coloni? come potrebbe ariel considerare suo nonno un vecchio inglese razzista e invasore, e non un eroico israeliano che ha messo in gioco la sua stessa vita per riscattare la sua terra promessa?
ariel dice di non sopportare le "lagne" di alaa e dellə altrə palestinesə e in questa sua insofferenza cela la paura di confrontarsi, il terrore di scoprirsi dalla parte del torto.
non è un uomo crudele, è soltanto un vincitore che non ha il coraggio di ammettere il prezzo della sua vittoria.

scompaiono lə arabə, si zittiscono le loro voci e, contemporaneamente, si alzano quelle dellə israelianə. chi dissente, però, dal pensiero comune di glorificazione dei padri fondatori e dei coloni, viene inevitabilmente considerato nemico della sua stessa nazione. è a uno di questi personaggi che azem fa pronunciare, verso la fine del libro, le parole che sgorgano spontaneamente dal cuore (almeno, a chiunque non abbia un cuore non corrotto):
se esistesse un premio per lo stato più moderno e razzista che considera se stesso una "democrazia", il nostro paese lo vincerebbe di sicuro. [...] dovremmo sbarazzarci del complesso della vittima. non siamo vittime!
e mentre giornali, radio e tv continuano il loro ping pong di accuse, paranoia e supposizioni, ariel legge il diario di alaa. l'ha trovato per caso, cercando in casa dell'amico qualche traccia che lo aiutasse a scoprire la verità sulla scomparsa impossibile di centinaia di migliaia di persone.
quel diario è l'ultima voce di tuttə quellə che sono scomparsə, di tuttə quellə le cui voci sono sempre state silenziate o ignorate. lə palestinesə non parlano, ricordano, e lo fanno nel silenzio delle loro menti.

se ariel è la parola che viene pronunciata con leggerezza, il suono - qui e ora - figlio dell'abitudine a ripetere ciò che una certa ideologia ha tramandato, è la parola scritta sulla carta da sue soldi del giornale, parola che dura un giorno, alaa è la memoria di generazioni, sedimentata nell'animo, nutrita dal tempo, dal silenzio, dalla conoscenza e dalla riflessione.
il grosso quaderno con la copertina rossa è, in realtà, una lunga, lunghissima lettera che alaa scrive alla nonna ormai morta. nel filo che connette nonna e nipote, si tiene in equilibrio tutta la storia della palestina dal 1948 a oggi, le parole - scritte in segreto - di alaa si trasformano in quelle di tutto un popolo inghiottito dal nulla.
della tua memoria mi tornano in mente alcune storie, che ho sentito o letto, o che ho inventato quando ero stanco. ho l'impressione che le storie più belle siano quelle che inventiamo. [...] quelle che viviamo sono mutilate, persino quel che ho vissuto io lo è. come se la mia memoria fosse una casa di vetro che, per quanto piena di incrinature come rughe, ancora si regge in piedi, non crolla. riusciamo comunque a vedere attraverso quel vetro, ma c'è qualcosa di offuscato, confuso [...] la confusione a volte è dovuta al dolore che è più forte di quel che riusciamo a mantenere nel ricordo. e così chiudiamo la memoria in una scatola nera nella testa e nel cuore, ma fa male, ci divora dall'interno, ci corrode giorno dopo giorno. ci corrode, sì. qualche volta mi domando perché provo tutta questa tristezza. da dove viene? e di colpo mi rendo conto di conoscere la risposta: la tua memoria mi fa male, e la mia mi pesa.
attraverso i paesaggi di giaffa/tel aviv, alaa racconta i brandelli di storia strappati alla memoria di sua nonna, la trasformazione della città e quella della vita dellə suə abitantə dalla nakba in poi.
è una memoria che scorre di generazione in generazione, attraverso i racconti tanto quanto dentro ai silenzi, alle metafore, al non-detto e al non-dicibile.
guardando tel aviv, si vede giaffa in trasparenza: la felicità perduta, la catastrofe e l'occupazione stanno tutte insieme contemporaneamente nelle stesse strade, negli stessi spazi. la memoria ricompone geografie urbane perdute, nomi di strade cancellati e sostituiti, scene ormai lontane nel tempo e che mai più saranno.

per ariel il passato è superfluo, il noioso argomento su cui lə palestinesə continuano a insistere e insistere, ma per alaa il passato è fondamentale.
sono le sue radici, la storia della sua famiglia, il motivo scatenante delle storie che sua nonna ingoiava per non lasciarle più uscire. il passato è la chiave che apre la porta sulla verità delle cose, ed è per questo che c'è chi vi si aggrappa con tutte le sue forse e chi, invece, lo vede solo come un ingombro fastidioso e fa di tutto per dimenticarlo e mistificarlo:
si ricordò che una volta [...] alaa era sbottato quando lui gli aveva chiesto di piantarla con quella storia che tel aviv era giaffa con le sue borgate limitrofe. doveva essere un uomo contemporaneo che guarda avanti e non si lascia ostacolare dal passato. [...] alaa era andato su tutte le furie come mai prima di allora [...] «cosa significa che devo essere contemporaneo? che devo distendermi a pancia sotto? che puoi fare a brandelli la mia dignità e io intanto dovrei applaudirti? quando capirai che tel aviv è la bugia a cui tutti hanno creduto? e poi giaffa non era solo frutteti, e se anche fosse stata soltanto un deserto, questa menzogna a cui avete creduto non ci dà il diritto di ucciderci e cacciarci. lo sai? se anche fossimo le persone più arretrate al mondo, questo non vi darebbe il diritto di espellerci! non vi darebbe il diritto di ammazzarci! andate a combattere contro l'europa che vi ha cacciati e uccisi!»
l'amicizia tra ariel e alaa è, in qualche modo, reale e sincera. ma è avvelenata dal sionismo e dalla bugia che ha riscritto la storia ribaltandola, provando a consegnare alla memoria dei nuovi ebrei israele come stato legittimo e lə palestinesə come occupanti. una bugia a cui hanno scelto di credere, giorno dopo giorno.

il diario di alaa stilla dolcezza e amarezza per la nonna e per il destino di un popolo intero, è imbevuto d'amore e di tristezza per ciò che è perduto per sempre. alaa scrive spesso "capisco", che si contrappone alla frase più usata dallə personaggə israelianə del libro "non capisco perché". facendosi contenitore dei ricordi che la nonna gli ha donato nel corso degli anni, accudendo le sue parole e suoi segreti, ereditando il peso della sua memoria, alaa si fa carico non solo dell'umanità schiacciata del popolo palestinese ma anche di quella ripudiata e abbandonata dallə israelianə a cui non importa altro che continuare a credere alla loro bugia, anche a costo di perdere sé stessə.
fa male leggere il tono paternalistico con cui ariel affronta i pensieri dell'amico, il senso di malcelata superiorità con cui affronta i suoi ricordi e le sue parole. essere meno mostruoso - come quando, da soldato, alza la voce davanti all'assassinio di un adolescente palestinese - lo fa sentire vicino ad alaa ma non abbastanza da comprenderlo pienamente.

quasi senza rendersene conto, come se fosse nel naturale ordine delle cose, ariel prende possesso della casa del suo amico scomparso, vìola il segreto del suo diario e dei suoi ricordi più intimi e non per cercare - anche se troppo tardi - di comprenderne il punto di vista, ma solo per avere materiale per scrivere i suoi articoli di giornale, per trovare lo scoop in questo gigantesco e incomprensibile caos.
la scomparsa dellə palestinesə è letta in molti modi: una minaccia, una liberazione, un sollievo, qualcosa di cui non preoccuparsi troppo. in nessun caso, mai, si alza dal coro la voce di chi vede come una tragedia epocale - neppure per l'eventuale paura che possa ripetersi e riguardare loro - la sparizione repentina e irrazionale di migliaia di esseri umani.
ibtisam azem non lo dice, ma il senso di tutto questo è chiaro.

non so se fosse questo l'intento ultimo dell'autrice, ma ne il libro della scomparsa ho voluto trovare un barlume di speranza, nascosto proprio come la nonna di alaa nascondeva i suoi ricordi e come alaa stesso nascondeva i propri sentimenti nelle pagine del suo prezioso diario.
quello che accade, la scomparsa dellə palestinesə, getta israele nel caos e toglie l'elemento chiave della sua stessa esistenza come stato occupante, coloniale e militarizzato. non ci è dato sapere cos'è questa scomparsa, come è avvenuta e per quale motivo, sappiamo solo che - nel romanzo - ha stravolto l'ordine delle cose.
quello che spero che accadrà - presto! - fuori dalle pagine di ogni possibile romanzo o giornale è che un qualche altro evento - forse altrettanto inimmaginabile e inspiegabile come la scomparsa - possa stravolgere l'ordine delle cose anche nella realtà, possa strappare il velo che riesce ancora a mistificare l'orrore e far crollare il peggior regime terrorista che ancora oggi insanguina strade, storie e memorie.

giovedì 17 ottobre 2024

stranimondi 2024 ~ un racconto per (poche) immagini

sabato 12 e domenica 13 ottobre c'è stato uno dei miei appuntamenti preferiti dell'anno, ovvero stranimondi, giunto quest'anno alla sua decima edizione (la terza per me).

foto di rito alla locandina

per chi non lo sapesse, stranimondi è una fiera/festival/convention dedicata alla letteratura fantastica, anzi, forse sarebbe meglio dire che è la fiera del fantastico (e - gioia, gaudio e tripudio! - sarà di nuovo accompagnata dalla sua sorellina minore marginalia, che si terrà, sempre alla casa dei giochi di sesto san giovanni, il 29 e 30 marzo).

la cartolina che più aspettavo mi è stata regalata proprio appena sono arrivata!

stranimondi è bellissima perché a) è piena di libri belli e b) è piena di gente bella appassionata di libri belli, che li legge, li scrive, li pubblica e ne parla. a stranimondi è facile trovare anime nerd-affini che poi diventano amicə insostituibili - perché basta poco a riconoscersi tra stranə - ed è altrettanto facile ritrovarsi con il portafogli vuoto e lo zaino pieno di libri.

a parte che è evidente che non sono capace di sorridere davanti a un obiettivo, stranimondi è stato il posto dove ho conosciuto stella dello scartafaccio e gloria e sephira di moedisia

ma soprattutto, stranimondi è bellissima perché è la migliore espressione di come il fantastico sia molto di più di un'evasione dalla realtà, anzi, sia uno specchio per guardare alla realtà e provare a comprenderla cambiando la nostra prospettiva. in questi giorni (proprio come era successo gli altri anni) si è parlato di transfemminismo, di cambiamento climatico e ecologia, di diritti civili e sociali. anche se il clima era quello di una grossa, lunga festa, non sono mancati i simboli di sostegno alla palestina perché sì, ci piace evadere dalla realtà ma non abbiamo nessuna voglia di girare lo sguardo dall'altra parte e far finta di non vedere.

quest'anno è stato palese che stranimondi sta crescendo sempre di più e sta diventando una realtà importante: sempre più editori, un programma di panel, incontri e presentazioni molto ricco e variegato, gente che viene un po' da tutta l'italia e - cosa che mi era mancata le volte scorse - un po' di materia prima per gossippare nelle prossime settimane (di cui vi parlo un po' più giù).
il problema è che se cresce stranimondi, non cresce la casa dei giochi. lo spazio è molto bello, ha l'atmosfera giusta e i giardinetti esterni con le loro sedie, tavoli, panche e biliardini, sono perfetti sia per decomprimere un po' che per cianciare in tranquillità. però purtroppo, vista l'affluenza di pubblico (stime non ufficiali vogliono circa 2000 ingressi quest'anno, ma dall'interno sembrava ci fosse almeno un milione di persone!), lo spazio interno diventa scarso, soprattutto la sala centrale quella in cui, ovviamente, si raduna più gente.
per chi, come me, è piccolinə, sabato è stato difficile riuscire a muoversi tra la folla, evitare le gomitate in faccia e respirare. per le persone disabili e/o neurodivergenti, sabato è stato ingestibile e non credo di essere stata l'unica a passare buona parte del tempo nei giardini.

ghiandina-souvenir raccolta in uno dei giardini

è innegabile che l'organizzazione negli anni sia riuscita a calamitare l'attenzione del pubblico con enorme successo, però questo dovrebbe significare anche cominciare a prendere in considerazione l'idea di allestire la fiera all'interno di uno spazio più grande e accessibile, magari mantenendo sempre la possibilità di un luogo all'aperto in cui chiacchierare e rilassarsi, e magari anche più facile da raggiungere per chi arriva a milano centrale (la metro di milano continuerà a essere protagonista dei miei incubi ancora a lungo, ne sono sicura)
creatorə di stranimondi, se mi leggete pensateci!

a questo giro ho tenuto la mia irrefrenabile voglia di shopping a bada per due motivi: a) lo zaino dovevo trascinarmelo da sola poi fino a bologna e b) qui ho solo uno scaffalino minuscolo e già quasi del tutto pieno.
ho preso solo due libri - lasciandone a malincuore uno sfacelo negli stand - ma la mia wishlist si è allungata notevolmente!

ecco il mio bottino, piccolino ma interessante

(e, a proposito, ho un appello! se eravate al panel dedicato alle fantascientiste, siete riuscitə a prendere appunti sui titoli consigliati? io ero troppo in fondo e non sono riuscita a sentire quasi nulla, ed è un peccato perché era l'incontro che mi interessava di più!)

io lontanissima, non sentivo niente!

passiamo al gossip: l'evento che ha catalizzato il chiacchiericcio è stato sicuramente quello dedicato al premio urania... o meglio, quello che doveva essere dedicato al premio urania ma che poi è diventato uno sproloquio sulla gestione di urania stessa.
ecco i miei due centesimini sulla questione: è comprensibile essere attaccatə al passato, voler continuare a fare le cose come si sono sempre fatte e non volersi sbattere troppo. io sono la prima che non riesce ad adattarsi alle novità e continuo a tenere questo blog sempre uguale a se stesso, però una cosa è essere una cazzona che scrive un blog, una cosa è gestire la più conosciuta collana di fantascienza d'italia!
il problema grosso di urania è che non sa comunicare online. il blog informa sulle uscite, è vero, ma non basta. ormai i rapporti tra editorə-autorə-lettorə sono cambiati tantissimo, i social non sono semplici vetrine ma piazze di dialogo e confronto e la mediazione operata dallə libraiə - o, come in questo caso, dallə edicolanti - non è più sufficiente. urania dovrebbe guardare a oscar vault, alla community che si è creata intorno alla pagina e prendere spunto (oltretutto si tratta sempre della stessa casa editrice, eh).

altri due centesimini: chiedere di spostare urania dalle edicole alle librerie non risolve il problema, al massimo incrementa quello della sopravvivenza stessa delle edicole che sono, molto spesso, gli unici poli culturali di cittadine e paesi piccolini. senza contare che ci sono anche servizi online (tipo primaedicola) che permettono di recuperare gli arretrati - di urania e non solo. affossare ancora di più una realtà già in difficoltà non è una grande soluzione, va migliorata invece la rete di distribuzione dei libri e soprattutto la comunicazione che se ne fa.
al momento, la risposta di urania alle scarse vendite è stata quella di limitare le uscite di autorə italianə ai solə vincitorə del premio urania, perché "la fantascienza italiana non vende".
io, personalmente, non credo sia vero. almeno, non credo che sia un assoluto. so per certo che un libro di cui nessunə parla e che nessunə conosce vende decisamente poco, ma so anche che la colpa non è del libro in sé ma di chi non l'ha accompagnato nel modo corretto verso lə lettorə.

tornando a stranimondi, l'unica cosa che mi ha un po' amareggiata sono certe dinamiche che bucano la bolla, atteggiamenti che se sui social lasciano il tempo che trovano, nel mondo fisico si trasformano in grosse delusioni. ma, al netto di questo, ho passato due giorni meravigliosi con gente meravigliosa, ho trangugiato così tanto sushi e poke in compagnia da essere a posto per i prossimi mesi, il mio amore per la letteratura fantastica è cresciuto ancora un po' e non vedo l'ora che sia marzo per tornare a incontrare di nuovo tuttə!

soprattutto il mio amico tim!

un po' di altre foto le trovate su instagram!




ps. martedì 15 ottobre claccalegge ha compiuto tredici anni!
per festeggiare questo traguardo ho pensato di aprire una raccolta fondi per l'unrwa, a sostegno del popolo palestinese. la raccolta sarà aperta per un mese, fino al 15 novembre. se vi va, condividete il link anche tra i vostri contatti!

lunedì 7 ottobre 2024

i cento amori di giulietta

appena ho visto helene, ho assaporato sulle labbra il gusto lieve e dolciastro del vino al miele, la reminiscenza di un bacio. succede tutte le volte che lei riappare nella mia vita, un ricordo ostinato che perdura dalla sera del nostro primo incontro, secoli fa.
certo, lei è del tutto inconsapevole della sua identità. o del fatto che la sua presenza - o assenza - nella mia vita abbia plasmato la mia intera esistenza.
oggi sarò pure sebastien, ma in principio il mio nome era romeo.
e il suo giulietta.

leggere i cento amori di giulietta non è stato facile perché ho passato la maggior parte del tempo con gli occhi lucidi e le lacrime sempre pronte a riversarsi giù, in uno stato di totale perdita di contegno e di assenza di vergogna. evelyn skye mi aveva convinta con damsel e adesso mi ha definitivamente conquistata con i cento amori di giulietta che, se da un lato è meno "politico" del primo, dall'altro è riuscito a farmi sentire totalmente coinvolta, trascinata nella storia che stavo leggendo. una storia d'amore bellissima, scritta senza mai scadere nel melenso, senza mai indugiare in scene da vecchio voyer senza scrupoli... e poi, insomma, parliamo della storia d'amore per antonomasia, quella di romeo e giulietta!
anche se in realtà le cose non sono andate proprio come ce le aveva raccontate shakespeare...

helene e sebastien si incontrano per la prima volta in una piccola cittadina dell'alaska. helene è appena arrivata, ha mollato tutto di colpo - il lavoro da giornalista che non decolla mai e, soprattutto, quel bastardo del suo futuro ex marito - e dalla california si è rifugiata nel gelo artico per poter diventare finalmente la nuova versione di sé che aspira a essere - quella che smette di tollerare le cattiverie e i tradimenti del marito, quella che tiene sempre gli occhi bassi, non alza mai la voce, sopporta tutto, non si lamenta mai e non rivendica mai quello che le spetta per diritto - e per scrivere, finalmente, il suo libro.
da quando ha memoria, colleziona brevi racconti, storie d'amore ambientate in tempi e luoghi diversi. helene sa che c'è qualcosa che le sfugge e che collega insieme tutto il materiale che ha accumulato fino ad adesso... ma cosa?
la sua unica certezza è che il protagonista maschile - anche se di volta in volta cambia nome, mestiere, città d'origine eccetera - è sebastien, l'amico immaginario che le fa compagnia e la sostiene di fronte a ogni difficoltà, nato nella sua mente per affrontare la malattia e la morte di suo padre quanto era ancora soltanto una ragazzina.
e adesso, eccolo lì: stesso volto, stessi occhi, stessi capelli, persino lo stesso nome! sebastien in carne ed ossa, dentro lo stesso pub in cui si è rifugiata a mangiare qualcosa di caldo la sera del suo arrivo in alaska, il primo giorno della sua nuova vita
com'è possibile che il suo amico immaginario, il protagonista dei suoi racconti, un personaggio inventato dalla sua immaginazione sia lì di fronte a lei, in carne e ossa?

il loro incontro non è certo una scena da film romantico, anzi. nonostante il destino sembra portarli costantemente una di fronte all'altro, sebastien è sempre scontroso, sgarbato e antipatico. in qualche modo, helene ha la sensazione che anche lui la conosca, ma è evidente che i sentimenti che lei prova per il sebastien che l'ha accompagnata per tanto tempo nella sua fantasia non corrispondono affatto a quelli che il sebastien della realtà prova per lei. ma perché lui è così respingente?

quella di romeo e giulietta è una storia con radici profondissime, che attraversano secoli e continenti. shakespeare fu ispirato dal racconto di questo amore impossibile già noto nel medioevo - ad esempio, dante cita le due famiglie dei montecchi e capuletti (cappelletti) nella sua divina commedia - ma alcunə studiosə hanno trovato echi degli archetipi di questa storia già nella letteratura classica greca e latina.
cambiano i nomi, cambiano i luoghi e le epoche ma l'infelice destino dei due amanti resta uguale.
evelyn skye si inserisce in questa lunghissima tradizione raccontandoci un finale alternativo della tragedia shakespeariana, quello in cui romeo, in realtà, uccide giulietta per sbaglio durante il suo duello con paride e per questo viene maledetto: per quanto ci provi, non riesce a morire e il suo tempo si dilata quasi all'infinito, facendolo invecchiare di un anno ogni cinquanta. in questa vita quasi eterna, romeo è costretto a incontrare ogni volta l'incarnazione di giulietta - ignara della loro vera identità - ad amarla e ad esserne amato, e infine, proprio come la prima volta, a perderla tragicamente.
romeo non può morire, giulietta muore ogni volta.
e adesso, tocca a helene e sebastien recitare sul palco del loro destino: le loro anime sono legate da secoli e anche questa volta non possono restare indifferenti una all'altro. ma qualcosa, adesso, sembra seguire un copione differente. che sia un segno che la maledizione si può spezzare?

sebastien e helene incarnano due prospettive opposte (e l'alternanza delle voci narranti, nel libro, sottolinea al meglio questa differenza): per lui, ogni storia d'amore è destinata a finire tragicamente perché, per quanto follemente si possa amare ed essere amatə, il destino che aspetta ciascuno di noi è sempre lo stesso. helene riesce però a mostrargli l'altro lato della medaglia: non vale forse la pena vivere una vita forse breve, sì, ma che è riuscita a conoscere una gioia così grande e totalizzante come quella che giulietta prova ogni volta con romeo? sebastien guarda verso il futuro colmo di timori e di angosce, vivendo ogni momento come se fosse l'ultimo prima di anni e anni di perdita e dolore, mentre helene è capace di concentrarsi sul presente, di vivere pienamente il momento come se niente, a parte il qui e ora, avesse importanza.

i cento amori di giulietta è un romanzo che - oltre a coinvolgerci in una bellissima storia d'amore - ci spinge a trovare le nostre risposte oltre la parola fine. cosa succede quando una storia finisce, quando si gira l'ultima pagina del libro? ok, lə nostrə protagonistə felici e innamoratə si sono sposati e ora vivranno "per sempre felici e contenti", ma quanto dura questo per sempre? è ovvio che il lieto fine non è davvero la fine e, in questo senso, ha ragione sebastien: ogni grande amore è destinato a finire tragicamente con la morte di unə dellə due amanti, che sia dopo un giorno o dopo decenni. ma è anche ovvio che per lieto fine possiamo intendere anche il compimento di quell'amore, che lo si voglia intendere come il matrimonio, come la nascita di unə figliə o come la realizzazione si qualsivoglia obiettivo che per quella certa coppia ha significato e valore, e qui ci tocca seguire il ragionamento di helene: forse vivremo questa immensa felicità per poco tempo, ma sarà una gioia così grande che nulla ci farà rimpiangere averla vissuta.

evelyn skye ci suggerisce che forse, quello che veramente conta non è tanto il modo in cui decidiamo di interpretare la realtà ma quanto siamo capaci di affrontarla con consapevolezza, e di condividere pienamente e sinceramente questa consapevolezza con chi amiamo e scegliamo come compagnə nella nostra vita. leggere la nota finale è stato un colpo al cuore - le parole di skye sono così autentiche e sincere che è difficile trattenere le lacrime - ma bellissimo. non vi dico altro.
conoscere l'altrə e conoscere sé stessə - così come helene ha immaginato/ricordato tanti frammenti delle sue vite passate con romeo/sebastien - accettare il passato ed essere prontə ad accogliere il futuro con speranza e accettazione, forse è questo che può spezzare la maledizione, che può spazzare via la paura che ci impedisce di vivere le cose per paura di perderle.

mercoledì 2 ottobre 2024

nella verde gola delle lupe

agilulfa alza una mano benedicente. il lupo perde la ferocia e si avvicina mansueto, le posa il capo sul grembo come un cane dopo le botte.
«la buona santa lo legò con la cintura. poi chiamò la gente che accorse con bastoni e coltelli: gli levarono la pelle per donarla alla cacciatrice gentile e ne bruciarono le carni. infine, nella grotta della bestia costruirono il nostro eremo...»

probabilmente pecchiamo di troppa fantasia quando proviamo a immaginarci cosa sarebbe un matriarcato e iniziamo a pensare a pensare a donne libere e felici che danzano nei boschi, senza uomini nei dintorni. ma un sistema matriarcale che semplicemente fa proprie le logiche e gli strumenti di quello patriarcale, non assicurerà alle donne i diritti di libertà, sicurezza e piena realizzazione di sé che chiedono da secoli.
eppure, siamo così stanche di millenni di dominazione maschile che continuiamo a visualizzare nelle nostre menti l'idillio ogni volta che ci ritroviamo a fantasticare su questa parola che tanto ci affascina.

quando ho visto i primissimi annunci di nella verde gola delle lupe, ho iniziato anche io a fantasticare di donne selvagge e libere dalla perenne riduzione di tutto il loro essere al loro ruolo di madri/spose. e ho, colpevolmente, sbagliato.
la comunità che vive nel folto del bosco è una società matriarcale e di sole femmine, ma tutt'altro che libera e selvaggia. le lupe vivono un'esistenza di regole da educande e ruoli ben stabiliti, intimamente connessi ai loro corpi e scanditi dalle trasformazioni fisiologiche che questi subiscono con il tempo. figlie, sorelle, madri, zie, nonne: sono sempre e soltanto qualcosa in relazione alle altre donne che le hanno generate, che hanno generato o con cui hanno condiviso il grembo materno.
il potere, all'interno della comunità, è in mano alle anziane, le quali istruiscono le giovani - scegliendo accuratamente in che modo farlo e cosa escludere da questa educazione - e decidono del loro futuro, se saranno o meno lettrici dell'unico libro in loro possesso, quello che racconta la storia di santa agilulfa e del lupo.

la santa, senza neppure tentennare davanti alla possibilità di conoscere il segreto che la grossa bestia - nera e capace di camminare su due piedi - dice di conoscere e di poterle confidare, la uccide e libera la grotta dove adesso vivono le lupe. perché - duemila anni di cristianesimo ce l'hanno insegnato bene - la donna saggia e giusta è quella che non si lascia trascinare dalla curiosità, uno dei tanti peccati in cui le donne sono così brave a scivolare... agilulfa è la fede e l'obbedienza che rinuncia alla conoscenza.
così le giovani crescono imparando a non fare domande, a fidarsi ciecamente delle altre più grandi, a obbedire, anche quando questo significa reprimere i propri sentimenti per una madre o una sorella morta, o temere quello che non si conosce. obbedire anche quando questo vuol dire ignorare tante cose, anche quelle che riguardano il loro stesso corpo.
cos'è che fa gonfiare il ventre delle madri? come fanno le donne a partorire bambine (perché i maschi vengono puntualmente abbandonati nel bosco, poco importano i sentimenti di una madre, queste sono le regole)? cosa succede alle vergini dopo il primo sangue? cos'è la congiunzione?
le risposte, per noi, non sono poi così difficili da immaginare.

lucrezia pei e ornella soncini immaginano un'italia in pieno rinascimento, anche se collocata in un universo alternativo, in cui, dal disequilibrio numerico tra maschi e femmine, le comunità si sfaldano e nuovi gruppi nascono tra le loro sfilacciature, come quello delle lupe.
quello che però manca a queste donne è la consapevolezza di ciò che sono e un intento politico che possa giustificare il loro modo di vivere e permetterle di figurarsi un obiettivo che sia più di "ci nascondiamo dai maschi ma ci accoppiamo con loro e facciamo accoppiare con loro le nostre figlie". quello che manca è un vero sentimento di sorellanza e fa male, malissimo SPOILER (TW STUPRO) leggere di ragazzine condotte nel bosco da madri e sorelle che finiscono per essere stuprate da uomini sconosciuti di cui, fino a poche ora prima, non sospettavano neanche l'esistenza.
quella delle lupe è una comunità di donne che, in fin dei conti, vivono secondo l'idea patriarcale di donna-utero, di donna destinata a produrre prole (altre femmine-riproduttrici o altri maschi-forza-lavoro), di donna silenziosa, obbediente, di donna che si prende cura delle bambine, delle giovani e inesperte ragazze, delle anziane ormai non più autonome.
fuori da quei ruoli, per le lupe non si disegnano altre possibilità.

al di là della trama, quello che rende difficile la lettura - o, almeno, l'ha resa difficile per me - è un linguaggio volutamente anacronistico e antico che, se da un lato ci lascia percepire la distanza temporale della storia e aiuta a rendere l'atmosfera, dall'altro troppe volte si contorce su sé stesso, finendo per curarsi più della sua forma che della capacità di comunicare, e arrivando spesso a rendere macchinosi e poco chiari alcuni passaggi.

la lettura di questo racconto mi ha lasciato un po' l'amaro in bocca, mi aspettavo forse un “messaggio” diverso, di rivendicazione di ruoli differenti, non sempre e non esclusivamente di subordinazione, almeno nella dimensione del fantastico, uno spazio in cui è possibile costruire o criticare e non soltanto replicare. mi aspettavo anche che il richiamo alla natura proponesse un rapporto più di tipo “simbiotico” tra donne-bosco-animali, mentre questi esistono solo come prede, per la loro carne o la loro pelliccia, e la vegetazione è giusto un elemento dello sfondo. insomma, forse il problema è stato più nella comunicazione che è stata fatta del libro e il tipo di aspettative che aveva generato (quantomeno in me) che altro. mi ero preparata sì a un viaggio in un passato alternativo e distopico ma anche di vedere una reazione diversa delle personagge alle vicende che sono costrette a vivere.

ultima nota: le illustrazioni di marco calvi mi sono piaciute moltissimo, soprattutto per il modo in cui riprendono e reinterpretano da una parte l'iconografia sacra classica e dall'altra quella quasi "neopagana", molto più vicina ai nostri tempi, trovando un linguaggio visivo coerente e uniforme che raccorda perfettamente le immagini e le inserisce senza soluzione di continuità nel racconto.