il suo nome di battesimo è anne, ma tutti la chiamano "la beldam west". le si addice, poiché è un appellativo ingombrante e malvagio: sembra il nome di un deserto biblico su cui dio ha fatto cadere una pioggia di meteoriti. beldam. "belle" è una parola francese che significa "bella" (e bella mia madre non è , anche se dicono che un tempo lo sia stata). e "dam" come "damned", "dannata". un concetto che mi guardo bene dallo sceverare.
le streghe di manningtree, romanzo d'esordio di a.k. blakemore, è uno dei libri letti a fine dell'anno scorso insieme alla coven di lettura* dedicata alle streghe, appunto. e forse, tra gli ultimi che abbiamo scelto di leggere, è uno di quelli che mi hanno lasciato il sapore più sciapo in bocca.
la storia si rifà alle reali persecuzioni contro le streghe nell'inghilterra del XVII secolo. per la precisione, siamo nel 1643 quando inizia la vicenda, a manningtree, una piccola cittadina dell'essex da cui la guerra ha portato via tutti gli uomini, lasciando le donne a macerarsi - e a macerare i loro piccoli odi personali, acuiti dalla fame e dai sacrifici che tempi simili impongono - da sole in paese.
le più vecchie, le più povere, quelle non ancora sposate e, in generale, chiunque si faccia notare troppo, diventa facilmente mira della antipatie altrui. e la beldam west è una che si fa notare decisamente troppo e su cui circolano, sottovoce, pettegolezzi circa la sua non proprio integerrima condotta morale.
rebecca, voce narrante della storia, è la sua unica figlia. e, almeno all'inizio del romanzo, prova odio e disprezzo per quella madre così fuori dalle righe. là dove la beldam west si lascia andare all'alcol e alle cattive compagnie, rebecca cerca di essere una ragazza modello: instancabile lavoratrice, modesta, pudica, devota e studiosa (di catechismo, ovviamente, non fatevi strane idee). studiare, soprattutto, è una delle cose che preferisce perché il suo insegnante è lo scrivano john edes, per cui bella nutre un amore puro e innocente.
in poche parole, rebecca è un'insopportabile bacchettona bigotta il cui virginale candore e la convinzione di peccare a ogni respiro che fa risultano stancanti in breve tempo.
ho passato tutta la prima parte del libro a sperare che prima o poi sua madre prendesse il suo posto.
la svolta, tanto nella trama quanto nella noiosissima esistenza di rebecca, arriva insieme a matthew hopkins, l'inquisitore.
e quando arriva l'inquisitore, improvvisamente le donne - soprattutto quelle più povere, vecchie e sole - iniziano a diventare streghe. o a vedere il diavolo nei posti più impensabili, come accade a rebecca, e a convincersi di esserlo.
matthew hopkins è un uomo orribile e odioso, ha una mente perversa e malvagia che riversa quella stessa malvagità su chiunque si posi il suo sguardo. hopkins vede il peccato in tuttə tranne che in sé stesso e - cosa che non ci sorprende affatto - mette subito gli occhi addosso a rebecca e a sua madre, tra le altre. l'evento che scatenerà l'inferno per le donne di manningtree è una strana febbre che coglie un bambino. da questo momento il paese si anima di dicerie su streghe, maledizioni, invidia e sortilegi.
dai primi pettegolezzi alle prigioni fredde e umide il passo è brevissimo.
buona parte del libro è dedicata proprio ai lunghi anni tra le prime accuse fino alla fine del processo a diverse donne, tra cui, ovviamente, ci sono anche rebecca e sua madre.
alla ragazza serve patire sulla propria pelle tutta quella crudeltà, quell'orrore, quell'odio per cominciare a schiarirsi la mente su dio e gli uomini e per cambiare, pian piano e con cautela, idea su sua madre.
quello che mi ha convinta meno di questo libro - che vanta un bello stile di scrittura, soprattutto se vi piacciono i toni un po' barocchi - è proprio la protagonista. sicuramente, rebecca è figlia del suo tempo ed è la più probabile rappresentazione di una giovanissima popolana dell'inghilterra del '600, istruita il minimo indispensabile e cresciuta in un ambiente intriso di puritanesimo.
però - proprio come si diceva nel gruppo - adesso avremmo bisogno di personagge che non siano sempre e solo vittime, anche a costo di essere meno coerenti con il contesto storico (d'altronde, si parla di romanzi, non di saggi), e di una visione dell'essere strega che possa sottolineare il potere, la conoscenza, la forza e l'indipendenza delle donne che hanno sfidato un certo modo di pensare e non quello di chi ha cercato, a tutti i costi, di conformarvisi.
insomma, non è un brutto libro, anzi, è molto appassionante, però sarebbe bello riuscire a leggere qualcosa di diverso (ad esempio, qualcosa di più simile a le streghe in eterno).
* per tutte le info sulla coven vi rimando alla pagina instagram della sua fondatrice.
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