in un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di amal, un paesino a est di haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e sole.
in questo periodo sto seguendo con tutta l'attenzione possibile quanto sta succedendo in palestina e nei territori occupati (chi mi segue su instagram lo sa bene) e, nello stesso tempo, ho cercato consigli di lettura, di narrativa e saggistica, sull'argomento. sì, anche narrativa, perché credo moltissimo nella forza dei racconti, delle narrazioni che facciamo degli eventi. ogni mattina a jenin è, da questo punto di vista, un romanzo dalla forza straordinaria.
è proprio nella dimensione personale del racconto di vita che, secondo me, si riesce a cogliere quello che nessun libro di storia, nessuna cronaca né, tantomeno, nessuna sfilza di numeri e statistiche potranno restituire, e cioè la dimensione umana di tragedie come quella che affligge lə palestinesə dal 1948.
il romanzo si apre con una scena drammatica: è il 2002 a jenin, siamo negli anni della seconda intifada, e la nostra protagonista, amal, ha lo sguardo fisso negli occhi del soldato israeliano che le sta puntando un fucile alla fronte. non ha paura di morire, sa che non è questo il suo momento, eppure il momento è così intenso che la memoria la porta indietro, lontano nel tempo, a un mondo che è scomparso prima che lei nascesse.
da qui ci spostiamo più di sessant'anni nel passato, nel 1941, in un piccolo villaggio, 'ain hod, vicino ad haifa, dove il tempo è scandito dalla preghiera e dalla raccolta delle olive - quegli uliveti che sono simbolo della palestina stessa e del legame dellə palestinesə con la loro terra.
conosciamo così yehya e sua moglie bassima, che saranno lə nonnə di amal, mentre si preparano alla raccolta, in un'atmosfera di festa e serenità che neppure gli screzi scherzosi con il vicinato riescono a smorzare. insieme a loro, ci sono hassan e darwish, i loro figli, rispettivamente il futuro padre e zio di amal, ancora giovanissimi, pieni di vita e di speranze per il futuro. il rapporto con lə ebreə, fuggitə dall'europa per scappare alle persecuzioni naziste, sembra idilliaco e si riassume nell'amicizia tra hassan e ari, un ragazzino che porta nella gamba offesa e nell'andatura zoppicante il ricordo delle violenze sopportate in germania.
a completare questo primo quadro, arriverà presto dalia, una ragazza beduina tanto bella quanto testarda e ribelle. riuscirà a rubare il cavallo di darwish e il cuore di entrambi i fratelli ma, alla fine, sposerà hassan. poco dopo quel matrimonio cambia tutto: lə sionistə invadono città e villaggi con il loro esercito messo insieme in fretta ma con enorme efficienza, mentre il mondo si accorda per riconoscere la legittimità della creazione di un nuovo stato in quelle terre che da generazioni e generazioni erano appartenute allə palestinesə, lasciando lə abitantə alla mercé delle aggressioni.
nelle prime, poche pagine, susan abulhawa consensa la storia delle radici di amal e, allo stesso tempo, dipinge una palestina libera e ricca di tradizioni che non sa ancora di correre verso la catastrofe fino a che non si presenta all'improvviso, rivelandosi attraverso le facce di soldati che feriscono, uccidono, distruggono. e rapiscono.
perché lì dove ci sono coppie benedette dall'arrivo di figliə tanto desideratə, ce ne sono altre, come moshe e jolanta, che pregano invano per anni e anni, finché la guerra e la sopraffazione, finché l'idea di essere in diritto di prendere quello che si vuole, qualunque cosa sia, senza pagarne le conseguenze, non aprono uno spiraglio terribificante alla risoluzione di tutti i loro problemi, stravolgendo del tutto e per sempre la famiglia hassan e dalia.
la storia della famiglia di amal e dei suoi fratelli yussuf e isma'il, si intreccia con quella della palestina intera: l'esilio e la perdita della propria terra coincidono con una perdita della propria identità, della parte più profonda del proprio essere. dalla guerra del 1948 tutto cambia repentinamente, ma di quel passato lontano e perduto ad amal restano soltanto i ricordi conservati nelle pieghe dei racconti e degli volti anziani che guardano dove lei non ha fatto in tempo a posare il suo sguardo. da quel momento, ai paesaggi tranquilli e familiari di 'ain hod si sostituiscono quelli del campo profughi di jenin, fatti di strade strette e muri che sorgono come una condanna all'immobilità, all'impossibilità del ritorno, fatti di check-point e di fucili spianati dei militari israeliani che controllano, picchiano, abusano, in un continuo tentativo - mai realmente realizzato - di estirpare dallə palestinesə ogni traccia di umanità, di forza e di speranza.
la storia di amal si sposta tra jenin e l'america e, allo stesso modo, il suo desiderio di aggrapparsi alle radici si alterna al bisogno di una vita più semplice, una vita senza esili, senza mortə da piangere e senza timore di aggiungere ogni giorno nomi a quella lista. una vita che non sia segnata dalle cronache dei giornali, un'identità facile da portarsi addosso come quella di chiunque altrə, un'esistenza che non parli di storia, di politica, di accuse e di commiserazione.
la sua storia è anche una storia di legami familiari e materni: il difficile rapporto con dalia, la madre distrutta dalla perdita che diventa incapace di manifestare amore, si riflette nella relazione tra amal e sua figlia sara. come si può essere felici e amare ancora quando tutto alle nostre spalle è sangue e dolore e rovine e perdita? la sofferenza diventa una prigione per i sentimenti di amal, una gabbia le cui sbarre dovranno essere spezzate poco alla volta fino a lasciare libere le parole e i gesti d'affetto, per non rivivere con sara quello che, da bambina, è stato con dalia.
susan abulhawa non perdona lo stato di israele per le sue atrocità, non giustifica lə nemicə del suo popolo. se pure c'è comprensione per jolanta e moshe, le loro azioni non vengono perdonate. e l'unico percorso di redenzione all'interno della storia è compiuto più in virtù dei legami di sangue, di una sorta di destino ineluttabile, che non per una qualche idea di giustizia.
ogni mattina a jenin racconta la storia di una donna, la storia della sua famiglia e della sua terra, racconta la storia di quella che è forse la più crudele di tutte le ingiustizie o forse solo quella più recente, in cui - da occidentalə - ci sentiamo inevitabilmente invischiatə.
yehya e bassima, hassan, darwish e dalia, amal, yussef e isma'il e poi ancora fatima e filastin, huda e majid e tuttə lə personaggə che animano le pagine di questo romanzo lə rivediamo in questi giorni nei video e nelle foto che circolano a centinaia sui social, immagini strazianti di una sofferenza neppure lontanamente immaginabile che ci lasciano senza parole, che scavano un buco al centro del petto dal quale scivolano via fiducia e speranza. perché un mondo che permette tutto questo, che appoggia tutto questo, che arriva a negare l'evidenza per preservare i suoi interessi più biechi, è un mondo nel quale non si può più credere.
e in un mondo così ci possiamo salvare solo se salviamo l'umanità, la nostra e quella dellə altrə, solo se impariamo a raccontare le storie, la storia, quella dei manuali e delle cronache, con le parole giuste. susan abulhawa ci riesce benissimo, leggete questo libro.
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