«questa è quella che [...] definisco "la palude del vago", dove l'estrema ricchezza e l'affilata precisione offerta dal lessico si impantana nella melma di significati altri che nascono da propagande politiche, da interessi economici, da pigrizia, da associazioni mentali errate ma entrate nell'immaginario comune. così accade che ormai "tipico" e "tradizionale" sono intercambiabili, come anche "autentico" e "genuino", "artigianale" e "naturale" e il cibo viene privato delle sue stesse sovrastrutture sensoriali, creando l'inganno del cibo "identitario" come luogo della memoria ricostruita, da difendere contro ogni minaccia di alterità»
il sottotitolo della collana bookblock è strumenti di autodifesa culturale e forse per questo libricino qui non si poteva scegliere una definizione più adatta.
che il cibo abbia smesso di essere una questione di sopravvivenza e sia diventato un fatto culturale, lo sappiamo da secoli e - ancor di più - lo facciamo da millenni. quello di mangiare insieme è un gesto che definisce i rapporti interpersonali più di ogni altra cosa (cosa mangiamo, come, dove, quando, tutto questo ci dice cosa siamo rispetto a chi ci troviamo sedutə accanto a tavola); l'atto di offrire del cibo agli ospiti è un gesto non solo di cortesia ma quasi rituale in tutte le culture (sì, anche nella nostra); rifiutare il cibo che ci viene offerto è considerata una grande scortesia; quello che mangiamo definisce chi siamo, che storia personale abbiamo, a che classe apparteniamo e in qualche modo anche qual è il nostro orientamento politico (la mortadella è comunista. il salame è socialista. il prosciutto è democristiano. la coppa liberale. le salsicce repubblicane. il prosciutto cotto è fascista). ma soprattutto, il cibo esprime la nostra identità, cioè riconduce a quella che è la nostra appartenenza, il nostro legame con il paese che abitiamo, e ancor di più con il nostro passato.
o almeno, questo è quello che ci piace pensare, e a furia di innamorarci di questa visione del cibo come se fosse una sorta di carta d'identità - o forse una medaglia, perché figuriamoci, la cucina italiana è la migliore del mondo finché siamo fuori dai confini nazionali, poi è tutta una guerra campanilistica tra nord e sud, est e ovest e provate a dire arancino a palermo e vi guarderanno come se vi fosse messi a bestemmiare nudə in cattedrale - ci siamo inventati di sana pianta un linguaggio che ruota attorno al cibo per provare a dargli dei significati che, a dirla tutta, non ha. e anche alle parole stesse che usiamo, come spiega serena guidobaldi, abbiamo attribuito dei significati che ci piacciono, senza curarci se siano corretti o no. e quindi vai di tradizione e genuinità e naturalità e autenticità, poco importa se poi gli ingredienti non sono genuini e non fanno parte della nostra memoria, poco importa se chiamiamo autentico il piatto che consumiamo in un ristorante di catena, che resta sempre uguale in ogni sede mentre intorno tutto il resto cambia.
e poco importa anche se i cibi tradizionali, quelli delle feste ad esempio, perdono la loro tradizionalità perché sono in realtà reperibili tutto l'anno, quello che ci importa di più è che siano instagrammabili abbastanza e che si prestino a poter(ci) raccontare ancora una volta chi siamo. perché abbiamo sempre più bisogno di delimitare i confini della nostra identità per tenere fuori tutto quello che non è "noi" per non renderci conto che quei confini non esistono e non sono mai esistiti se non nella nostra volontà di renderli reali.
post pubblicato in origine su instagram.
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