"da quando sono morta - da quando ho raggiunto questa condizione di senzaossa, senzalabbra, senzapetto - ho imparato cose che avrei preferito non sapere, come succede se si origlia dietro le finestre o si aprono le lettere degli altri. credete che vi piacerebbe leggere nelle menti? ripensateci."
è morta penelope, da millenni ormai, e può finalmente raccontare la sua storia senza più temere gli dèi. può raccontare la sua storia e quella delle sue dodici ancelle predilette - amiche, quasi figlie - la loro vita miserabile, la loro morte ingiusta.
la rabbia di penelope si è ormai spenta in qualche modo, ma in fondo lei non ha mai pensato che avrebbe potuto esprimerla. forse non ha mai pensato che fosse lecito neppure provarla.
penelope ha sempre interpretato il suo ruolo, rassegnata all'idea di non poter mai essere nulla di più di quello che le era toccato di essere: una figlia non amata, una principessa non desiderata, una moglie abbandonata e tradita.
penelope piange e piange e piange, consolandosi solo di non aver causato le tante tragedie scaturite dalla bellezza della cugina elena.
penelope piange e sceglie di credere alle bugie su odisseo: dèi crudeli, maghe, sirene. sceglie di ignorare le storie in cui lui è poco più di un frequentatore di bordelli o un irresponsabile comandate che lascia morire i suoi uomini. penelope sceglie la versione della storia che meno la addolora, l'unica che le permette di sopportare l'arroganza e la prepotenza maschile che fin dal primo momento l'ha condannata a una vita triste. il padre che voleva affogarla, il marito che per dieci anni ha preferito una vita di avventure a lei, il figlio che la accusa di sperperare le sue ricchezze e i pretendenti che la deridono, che si approfittano e stuprano le sue ancelle.
ecco, le sue ancelle. dodici - numero mistico - poco più che bambine, cresciute con amore da penelope, destinate fin da prima della loro nascita a una vita di servitù e di passiva accettazione del volere del padrone. a quel padrone, che punisce con la morte per il loro essere state vittime indifese, margaret atwood, insieme con penelope, organizza un processo dando finalmente alle dodici assassinate la possibilità di parlare.
il canto delle ancelle scandisce il racconto di penelope, è un canto che prepara, anticipa e replica all'infinito l'orribile scena della loro uccisione, un canto che chiede giustizia per quella crudeltà ingiustificabile che mai venne espiata da odisseo.
adesso, morte anche loro, non concedono pace all'anima dell'eroe, perseguitandolo vita dopo vita, reincarnazione dopo reincarnazione.
penelope, invece, resta sé stessa: non dimenticherà quello che è stato e non ha voglia di conoscere altro. ha visto abbastanza da non desiderare una nuova esistenza.
il canto di penelope è un romanzo rabbioso che però non alza mai la voce, non concede mai ai suoi personaggi di liberarsi troppo dalle parole che li hanno raccontati millenni fa e questo è, probabilmente, il suo punto di forza. non serve snaturare penelope e odisseo, basta semplicemente far raccontare la stessa, identica storia a una donna: lei sarà capace di dar voce a tutti i silenzi che neppure il più grande dei poeti ha saputo cantare.
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