la cosa più affascinante è quando è il paesaggio stesso a girare intorno a questo cielo che resta immobile, sempre sullo stesso piano. come succedeva nelle curve, quando ero sdraiato nel sedile posteriore della 504. il movimento. il viaggio. l’oscurità misteriosa della foreste della borgogna. scappavamo da tutti i mostri che erano nascosti là dentro, viaggiando di notte, al caldo.
diciott'anni, la patente appena ottenuta, l'estate, una vecchia citröen visa rimessa in qualche modo in piedi e la voglia di arrivare il più lontano possibile.
è il 1986, sono passati pochi mesi dal disastro di chernobyl ma lo spavento sembra già essere passato quando due cugini decidono di lasciare la francia a bordo di un catorcio carico di libri e spingersi verso est.
frugando tra i suoi ricordi nicolas de crécy mette su carta un viaggio di trentatré anni prima, quando l'europa era disseminata di frontiere e il turismo era cosa da avventurieri, carichi di documenti e cartine pieghevoli. i paesaggi - nord italia, jugoslavia, bulgaria, turchia - si mescolano agli inevitabili aneddoti di un viaggio improvvisato e ai ricordi dell'infanzia, diventano cartoline che esplodono di rossi e arancioni, abbelliti dal filtro di una memoria sbiadita o forse semplicemente malinconica.
voce narrante, evocativa e poetica, di questa prima parte di visa transit (la storia è divisa in due volumi di cui al momento è stato pubblicato solo il primo) è quella di un de crécy di trentatré anni dopo, che illustra, commenta, divaga, si distrae, anticipa e torna indietro, da ottimo narratore risparmia i tempi morti e si concentra sui momenti più significativi, quelli che sono rimasti nella sua memoria tanto a lungo e ne hanno richiamati a galla altri ancora più lontani.
il ritmo lento della vecchia auto costringe a vivere tutto il tempo che le distanze esigono per essere percorse, non sconta nessun imprevisto e non sottrae dettagli: le strade tortuose e deserte che mutano colori e atmosfere procedendo verso oriente regalano paesaggi inediti, diversi da quelli freddi e nebulosi dei suoi lavori precedenti, sorprese concesse a noi lettori che ci ritroviamo in un attimo a goderci il premio di un pomeriggio di frescura in uno sperduto villaggio in turchia costruito tra - e dentro - gli alberi, o una notte stellata e gelida che illumina un pezzo di strada quasi introvabile sulla cartina.
davanti alle pattuglie di frontiera, ai controlli dei visti, agli sguardi sospettosi di chi decide se puoi andare avanti o se il tuo viaggio dovrà interrompersi, è impossibile non fare il paragone con le frontiere di oggi, quelle che non minacciano la riuscita di un viaggio di piacere ma i tanti, troppi, tentativi di trovare un posto migliore in cui vivere.
i luoghi di visa transit mutano lentamente, sfumano uno nell'altro e raccontano un mondo che, a guardarlo da vicino, è una rete di diversità indissolubilmente collegate tra loro. le frontiere diventano solo un tentativo mal riuscito di spezzare i legami, interrompere le strade e distinguere qua e là, noi e loro. sono la voglia di tracciare confini dove in realtà ci sono passaggi, di dare nomi diversi a persone uguali, di insegnarti uno spazio preciso, un recinto chiuso, dal quale poter uscire solo grazie a un permesso, che non ti guadagni in virtù di chissà cosa, ma solo perché sui tuoi documenti è segnato che sei nato nel posto giusto.
de crécy ci aveva già abituati a pagine di altissimo livello (il celestiale bibendum, la repubblica del catch o prosopopus, che se non li avete letti direi che è il momento di recuperare) e anche qui non delude per un solo momento, pur abbandonando - ma non del tutto, vedrete - il suo spirito visionario e le realtà allucinate che hanno caratterizzato i suoi lavori precedenti.