«come se il buio li avesse inghiottiti. come se il mare li avesse rapiti». così hai descritto i tuoi giorni e la gente che era stata cacciata via al di là del mare. non hai detto che il numero di abitanti si era ridotto da più di centomila a circa quattromila persone. no, non lo hai fatto. hai detto, invece, che senza di loro non riusciti più a riconoscere la tua città.
leggere il libro della scomparsa allo scoccare del primo anno del genocidio in palestina - l'ultima fase, almeno, del genocidio, la più feroce e palese di settantasei anni di occupazione, l'unico genocidio della storia trasmesso in diretta e comunque ignorato se non addirittura giustificato dalle potenze occidentali - è stata un'esperienza dolorosa quanto illuminante.
al di là della trama, ibtisam azem parla di contrapposizioni assolute: esistenza e assenza, presenza e memoria, parola vibrante e ricordo sepolto.
il diario - contenitore prezioso di memorie lontane - e il giornale - quello che, un giorno dopo, è già carta straccia.
stretti nella stessa fascia di terra, schiacciati da leggi ingiuste e inumane, palestinesə e insraelianə si dividono il medesimo spazio-tempo, coesistono, senza riuscire davvero a vivere insieme, senza che una parte riesca a mostrare la sua verità all'altra, neppure quando tra alcunə di loro si creano dei legami.
alaa e ariel sono, in qualche modo, amici. vivono nello stesso palazzo ma si sono conosciuti per caso a una festa noiosa e, da quel momento, hanno stretto un rapporto che somiglia a quello di tantə altrə, fatto di chiacchiere e scambi di idee. eppure, nonostante abbiano imparato a conoscersi bene e si ritrovino a condividere un legame, non riescono a sintonizzarsi sulla stessa frequenza quando il discorso tocca la questione dell'occupazione, della nakba, di quell'evento che è insieme storia e presente.
è attraverso le loro parole, soprattutto quelle di ariel, che azem ci racconta della scomparsa.
succede in una notte qualsiasi, senza che niente potesse destare sospetti, senza clamore né agitazione. tuttə lə palestinesə dei territori occupati spariscono senza lasciare traccia.
il giorno dopo il paese sprofonda nel caos: scomparsə lə braccianti nei campi, neanche l'ombra di operaiə o autistə, chiusi i bar e i ristoranti. le case sono vuote, le tracce di una quotidianità inspiegabilmente interrotta restano sparse tra i piatti ancora da lavare, nei libri letti a metà, in mezzo alle lenzuola disfatte.
si direbbe che israele ha vinto.
dopo settantasei anni di occupazione, di guerre e di attentati, di trattati più o meno rispettati, di convivenza forzata, di odio quotidiano, il paese intero adesso è suo, lə arabə che da decenni cercavano di cacciare via sono andatə, chissà dove e chissà come.
vittoria! no?
in realtà no.
la scomparsa dellə palestinesə getta israele nel panico, uno stato di paura e agitazione, la sensazione di minaccia è, paradossalmente, aumentata: sono sparitə, sì, ma perché? come? torneranno? e allora cosa succederà? e se non torneranno, cosa dirà il resto del mondo? cosa farà? cosa faremo?
ma soprattutto, se non torneranno, cosa resterà di un popolo che da settantasei anni fa della dominazione di un altro popolo il suo motivo stesso di esistere?
le parole dellə personaggə israelianə, per tutto il libro, sono venate di vittimismo. quello della shoa non è solo il tremendo passato dei loro avi ma il tappeto sotto cui nascondere i crimini di oggi. e se pure di questi crimini lə israelianə non parlano mai apertamente, è facile scorgerli nella paura costante delle ritorsioni, delle cospirazioni che vedono ordite ovunque contro di loro.
occupazione e colonizzazione vengono romanticizzate nelle parole di ariel.
parole, è importante sottolinearlo, perché è lui - ariel - quello che può ancora parlare, quello che è presente. in quelle parole non c'è spazio per termini come sterminio, catastrofe, genocidio, crimine. si invoca un futuro di purezza e pulizia senza esplicitare il paragone tra lə palestinesə e le "impurità" di cui hanno necessità di liberarsi. le parole di ariel sono, per estensione, quelle di tutto il popolo israeliano: stessi termini, stessi pensieri, stessa dottrina.
neppure adesso che il sogno si è realizzato, israele riesce a guardarsi allo specchio e riconoscersi come invasore e colonizzatore:
perché le madri palestinesi mandano i loro figli a tirare le pietre o compiere atti terroristici contro di noi? non capisco perché insistono a venire ogni giorno ai checkpoint e combatterci [...] in base alla mia esperienza come soldatessa, ho la sensazione che ai palestinesi piaccia essere malmenati e torturati oppure picchiare e offendere gli altri. altrimenti non si spiegherebbe il fatto che insistono con tutta questa violenza.
le parole di una soldatessa che risponde a un'intervista sono agghiaccianti, quasi da distopia, eppure - lo stiamo vedendo da più di un anno - corrispondono alla reale percezione dei fatti. l'indottrinamento israeliano è così potente da distorcere la realtà, da creare un sistema tale di pensiero da trasformare la vittima in aggressore e il colonizzatore in vittima.
ma queste storie che ariel e lə altrə israelianə si raccontano sono utili, sono necessarie. hanno bisogno di crederci, hanno bisogno di credersi vittime, di credersi superiorə e civilizzatorə di un mondo arretrato e primitivo. la loro è una fede, rifiutano l'indagine per gettarsi a capofitto della fede cieca a un'interpretazione della storia - recentissima, praticamente della cronaca - per far fronte alla realtà delle cose.
con che coraggio ci si può guardare allo specchio e riconoscersi figliə e nipote di colonizzatori, assassini, coloni? come potrebbe ariel considerare suo nonno un vecchio inglese razzista e invasore, e non un eroico israeliano che ha messo in gioco la sua stessa vita per riscattare la sua terra promessa?
ariel dice di non sopportare le "lagne" di alaa e dellə altrə palestinesə e in questa sua insofferenza cela la paura di confrontarsi, il terrore di scoprirsi dalla parte del torto.
non è un uomo crudele, è soltanto un vincitore che non ha il coraggio di ammettere il prezzo della sua vittoria.
scompaiono lə arabə, si zittiscono le loro voci e, contemporaneamente, si alzano quelle dellə israelianə. chi dissente, però, dal pensiero comune di glorificazione dei padri fondatori e dei coloni, viene inevitabilmente considerato nemico della sua stessa nazione. è a uno di questi personaggi che azem fa pronunciare, verso la fine del libro, le parole che sgorgano spontaneamente dal cuore (almeno, a chiunque non abbia un cuore non corrotto):
se esistesse un premio per lo stato più moderno e razzista che considera se stesso una "democrazia", il nostro paese lo vincerebbe di sicuro. [...] dovremmo sbarazzarci del complesso della vittima. non siamo vittime!
e mentre giornali, radio e tv continuano il loro ping pong di accuse, paranoia e supposizioni, ariel legge il diario di alaa. l'ha trovato per caso, cercando in casa dell'amico qualche traccia che lo aiutasse a scoprire la verità sulla scomparsa impossibile di centinaia di migliaia di persone.
quel diario è l'ultima voce di tuttə quellə che sono scomparsə, di tuttə quellə le cui voci sono sempre state silenziate o ignorate. lə palestinesə non parlano, ricordano, e lo fanno nel silenzio delle loro menti.
se ariel è la parola che viene pronunciata con leggerezza, il suono - qui e ora - figlio dell'abitudine a ripetere ciò che una certa ideologia ha tramandato, è la parola scritta sulla carta da sue soldi del giornale, parola che dura un giorno, alaa è la memoria di generazioni, sedimentata nell'animo, nutrita dal tempo, dal silenzio, dalla conoscenza e dalla riflessione.
il grosso quaderno con la copertina rossa è, in realtà, una lunga, lunghissima lettera che alaa scrive alla nonna ormai morta. nel filo che connette nonna e nipote, si tiene in equilibrio tutta la storia della palestina dal 1948 a oggi, le parole - scritte in segreto - di alaa si trasformano in quelle di tutto un popolo inghiottito dal nulla.
della tua memoria mi tornano in mente alcune storie, che ho sentito o letto, o che ho inventato quando ero stanco. ho l'impressione che le storie più belle siano quelle che inventiamo. [...] quelle che viviamo sono mutilate, persino quel che ho vissuto io lo è. come se la mia memoria fosse una casa di vetro che, per quanto piena di incrinature come rughe, ancora si regge in piedi, non crolla. riusciamo comunque a vedere attraverso quel vetro, ma c'è qualcosa di offuscato, confuso [...] la confusione a volte è dovuta al dolore che è più forte di quel che riusciamo a mantenere nel ricordo. e così chiudiamo la memoria in una scatola nera nella testa e nel cuore, ma fa male, ci divora dall'interno, ci corrode giorno dopo giorno. ci corrode, sì. qualche volta mi domando perché provo tutta questa tristezza. da dove viene? e di colpo mi rendo conto di conoscere la risposta: la tua memoria mi fa male, e la mia mi pesa.
attraverso i paesaggi di giaffa/tel aviv, alaa racconta i brandelli di storia strappati alla memoria di sua nonna, la trasformazione della città e quella della vita dellə suə abitantə dalla nakba in poi.
è una memoria che scorre di generazione in generazione, attraverso i racconti tanto quanto dentro ai silenzi, alle metafore, al non-detto e al non-dicibile.
guardando tel aviv, si vede giaffa in trasparenza: la felicità perduta, la catastrofe e l'occupazione stanno tutte insieme contemporaneamente nelle stesse strade, negli stessi spazi. la memoria ricompone geografie urbane perdute, nomi di strade cancellati e sostituiti, scene ormai lontane nel tempo e che mai più saranno.
per ariel il passato è superfluo, il noioso argomento su cui lə palestinesə continuano a insistere e insistere, ma per alaa il passato è fondamentale.
sono le sue radici, la storia della sua famiglia, il motivo scatenante delle storie che sua nonna ingoiava per non lasciarle più uscire. il passato è la chiave che apre la porta sulla verità delle cose, ed è per questo che c'è chi vi si aggrappa con tutte le sue forse e chi, invece, lo vede solo come un ingombro fastidioso e fa di tutto per dimenticarlo e mistificarlo:
si ricordò che una volta [...] alaa era sbottato quando lui gli aveva chiesto di piantarla con quella storia che tel aviv era giaffa con le sue borgate limitrofe. doveva essere un uomo contemporaneo che guarda avanti e non si lascia ostacolare dal passato. [...] alaa era andato su tutte le furie come mai prima di allora [...] «cosa significa che devo essere contemporaneo? che devo distendermi a pancia sotto? che puoi fare a brandelli la mia dignità e io intanto dovrei applaudirti? quando capirai che tel aviv è la bugia a cui tutti hanno creduto? e poi giaffa non era solo frutteti, e se anche fosse stata soltanto un deserto, questa menzogna a cui avete creduto non ci dà il diritto di ucciderci e cacciarci. lo sai? se anche fossimo le persone più arretrate al mondo, questo non vi darebbe il diritto di espellerci! non vi darebbe il diritto di ammazzarci! andate a combattere contro l'europa che vi ha cacciati e uccisi!»
l'amicizia tra ariel e alaa è, in qualche modo, reale e sincera. ma è avvelenata dal sionismo e dalla bugia che ha riscritto la storia ribaltandola, provando a consegnare alla memoria dei nuovi ebrei israele come stato legittimo e lə palestinesə come occupanti. una bugia a cui hanno scelto di credere, giorno dopo giorno.
il diario di alaa stilla dolcezza e amarezza per la nonna e per il destino di un popolo intero, è imbevuto d'amore e di tristezza per ciò che è perduto per sempre. alaa scrive spesso "capisco", che si contrappone alla frase più usata dallə personaggə israelianə del libro "non capisco perché". facendosi contenitore dei ricordi che la nonna gli ha donato nel corso degli anni, accudendo le sue parole e suoi segreti, ereditando il peso della sua memoria, alaa si fa carico non solo dell'umanità schiacciata del popolo palestinese ma anche di quella ripudiata e abbandonata dallə israelianə a cui non importa altro che continuare a credere alla loro bugia, anche a costo di perdere sé stessə.
fa male leggere il tono paternalistico con cui ariel affronta i pensieri dell'amico, il senso di malcelata superiorità con cui affronta i suoi ricordi e le sue parole. essere meno mostruoso - come quando, da soldato, alza la voce davanti all'assassinio di un adolescente palestinese - lo fa sentire vicino ad alaa ma non abbastanza da comprenderlo pienamente.
quasi senza rendersene conto, come se fosse nel naturale ordine delle cose, ariel prende possesso della casa del suo amico scomparso, vìola il segreto del suo diario e dei suoi ricordi più intimi e non per cercare - anche se troppo tardi - di comprenderne il punto di vista, ma solo per avere materiale per scrivere i suoi articoli di giornale, per trovare lo scoop in questo gigantesco e incomprensibile caos.
la scomparsa dellə palestinesə è letta in molti modi: una minaccia, una liberazione, un sollievo, qualcosa di cui non preoccuparsi troppo. in nessun caso, mai, si alza dal coro la voce di chi vede come una tragedia epocale - neppure per l'eventuale paura che possa ripetersi e riguardare loro - la sparizione repentina e irrazionale di migliaia di esseri umani.
ibtisam azem non lo dice, ma il senso di tutto questo è chiaro.
non so se fosse questo l'intento ultimo dell'autrice, ma ne il libro della scomparsa ho voluto trovare un barlume di speranza, nascosto proprio come la nonna di alaa nascondeva i suoi ricordi e come alaa stesso nascondeva i propri sentimenti nelle pagine del suo prezioso diario.
quello che accade, la scomparsa dellə palestinesə, getta israele nel caos e toglie l'elemento chiave della sua stessa esistenza come stato occupante, coloniale e militarizzato. non ci è dato sapere cos'è questa scomparsa, come è avvenuta e per quale motivo, sappiamo solo che - nel romanzo - ha stravolto l'ordine delle cose.
quello che spero che accadrà - presto! - fuori dalle pagine di ogni possibile romanzo o giornale è che un qualche altro evento - forse altrettanto inimmaginabile e inspiegabile come la scomparsa - possa stravolgere l'ordine delle cose anche nella realtà, possa strappare il velo che riesce ancora a mistificare l'orrore e far crollare il peggior regime terrorista che ancora oggi insanguina strade, storie e memorie.