mercoledì 20 novembre 2024

nel paese delle donne selvagge

quelli che vedono gli altri come mostri non si accorgono che i mostri ricambiano lo sguardo e osservano con molta attenzione. gli individui che si ritengono superiori agli altri non sono in grado di rendersi conto che anche loro possono essere valutati e giudicati.

donne potenti, spaventose, furiose. donne assetate di vendetta, capaci di mutare forma e di tessere ogni sorta di inganni. donne di cui il folklore - e il teatro - giapponese trabocca: fantasmi e kitsune e demoni pronte a stravolgere la vita delle loro vittime... o di quelli che furono un tempo i loro carnefici.
matsuda aoko pesca a piena mani dal ricco repertorio nipponico di storie popolari, leggende, credenze, letteratura e drammaturgia per consegnarci un'antologia di racconti che è riuscita a sorprendermi e conquistarmi perché mi ha dato esattamente quello che per anni ho desiderato leggere sulle varie figure mitologiche femminili: una prospettiva diversa che ne ribaltasse il giudizio morale vecchio di secoli per mostrarle non più come mostri da temere, scacciare o annientare, ma come creature forti che rivendicano semplicemente il loro posto nel mondo.

le storie di nel paese delle donne selvagge si intrecciano più e più volte attorno a un fulcro centrale che è un ragazzo un po' ingenuo, immune al fascino di queste donne straordinarie o al terrore che provocano. shigeru è un personaggio quasi sbiadito, una figura praticamente anonima la cui presenza non fa che sottolineare la straordinarietà delle figure femminili protagoniste dei racconti.
shigeru è il punto di intersezione dei racconti ma è anche il centro politico dello spazio in cui vivono le protagoniste delle storie e lo è per un solo, banale ma fondamentale motivo: shigeru è un uomo e, in quanto tale, nonostante la sua mancanza di eccezionalità gli è permesso occupare uno spazio molto meno marginale di quello che abitano le donne.
ma più che shigeru, il vero trait d'union tra le storie lo fa il tono femminista: che si tratti di un potenziale poltergeist animata dalla gelosia o di una donna che riconosce il suo lato selvaggio nei peli che le ricoprono il corpo, di una fantasma che scopre la libertà nella sua nuova esistenza post-mortem o di un'anziana signora che si accorge solo adesso della sua vera natura e della bellezza della libertà dalle imposizioni di genere, matsuda aoko dà a tutte le sue protagoniste la possibilità di riflettere sui temi fondamentali del discorso femminista: le relazioni uomo/donna, il matrimonio, la maternità, le costrizioni sociali in merito alla cura del proprio corpo e del proprio aspetto, il ruolo femminile negli ambienti di lavoro, il giudizio sui corpi - femminili - che si discostano dagli standard morfologici ed estetici.
volendo trovare un solo, unico tema omnicomprensivo sarebbe quello della donna come soggetto attivo e consapevole, della donna che sceglie di autodeterminarsi e di tirarsi fuori da un sistema oppressivo e patriarcale come quello giapponese, la donna che fino a questo momento era stata svuotata della sua umanità e riconvertita in figura orrorifica da storia del terrore, che prende parola, racconta sé stessa e - attraverso la sua parola - riprende possesso della legittimità della propria esistenza.

è cosa nota che gli uomini che temono le donne - che hanno paura del loro non volersi sottomettere, del loro reclamare il diritto ad avere un ruolo che non sia solo quello di moglie obbediente e madre sacrificata al bene dellə figlə -  risolvono disumanizzandole e mostrificandole, le trasformano, cioè, in qualcosa di innaturale e incomprensibile, qualcosa che si può distruggere senza remore. che siano gorgoni o kitsune, la deformazione fisica attribuita nei miti a queste figure si accompagna a quella dei loro intenti: non più un comprensibile e profondamente umano desiderio di esistere secondo la propria natura, ma un'irrazionale ferocia, una crudeltà senza scopo. gli attacchi di queste donne non-più-umane o mai-state-umane sono impossibili da capire e da giustificare e questo non si traduce in un'incapacità di cambiare prospettiva da parte della voce narrante (sempre patriarcale e maschiocentrica) dei miti, ma nell'assurdità dell'essenza stessa di queste figure.
matsuda aoko conosce bene questo processo, ed è per questo che lo fa suo e lo stravolge completamente, ribaltando quella traduzione e riconsegnando quelle figure folkloristiche alla loro umanità.

chi, fino ad adesso, era stata raccontata da altri (maschile voluto) e aveva avuto un ruolo da antagonista, qui diventa la personaggia principale, protagonista della sua storia e della sua vita: le donne di aoko sono capaci di prendere spunto dal quotidiano - a volte anche da eventi piccoli e banali, a volte da qualcosa che è poco più di una sensazione - per riflettere non soltanto sulla loro condizione, ma su quella di tutte le donne - 
perché il mondo funzionava così? la società era ingiusta! spesso gli uomini erano costretti a fingere di essere in grado di fare cose che non erano in grado di fare, mentre le donne dovevano far finta di essere incapaci di fare cose che in realtà sapevano fare. che assurdità! nel corso dei decenni e dei secoli quante donne si erano viste tarpare le ali e non avevano potuto manifestare il loro talento? e quanti uomini, invece, si erano visti attribuire come per magia qualità che non possedevano e poteri che non meritavano?
- per poi ribellarsi a tutto quello che tarpa loro le ali, che soffoca i loro talenti e annichilisce i loro desideri. contro tutto quello che è sempre stato così, le donne escono dai miti per riappropriarsi della realtà.

lunedì 11 novembre 2024

roaming

volevo venire qui per stare con la mia migliore amica, ma tu... sei... tu non sei più tu.


roaming è una storia che parla dell'avere vent'anni, di com'è l'amicizia a quell'età, di com'è l'amore, di come ci si relaziona con sé stessə mentre ci si costruisce, un pezzo alla volta.
in modo anche inaspettatamente doloroso, a volte.
e inaspettatamente doloro è il viaggio a new york di dani, zoe e fiona.
cioè, inaspettatamente vale per loro, o per chi i vent'anni li sta vivendo adesso.
noi, che ormai stiamo quasi doppiando il traguardo, lo sapevamo benissimo fin da subito come sarebbe andata a finire.

new york è per dani e zoe il sogno di sempre. amiche fin da quando erano piccole, la provincia del canada in cui sono cresciute adesso sembra essere troppo stretta per due ragazze che si stanno trasformando in qualcosa di nuovo.
stanno crescendo ma, a volte, non si cresce seguendo la stessa traiettoria, o allo stesso ritmo.
le strade si dani e zoe hanno iniziato a dividersi quando hanno scelto percorsi di studio diversi all'università: arte e biologia. cosa potrebbe esserci di meno compatibile?


ma a scatenare davvero la tempesta tra dani e zoe è la presenza, durante il tanto sognato viaggio a new york di fiona.
dani e fiona studiano insieme, vivono nello stesso dormitorio e forse non potrebbero essere più diverse: ingenua e un po' infantile dani, il suo carattere stride con l'atteggiamento da "bad girl" di fiona.
eppure, in qualche modo il loro rapporto funziona finché l'incontro zoe - divisa tra l'affetto di lunga data per dani e la nuova irresistibile attrazione per fiona - non arriva a destabilizzare tutto.

forse perché, come dicevo sopra, questi tornado emotivi appartengono a un periodo passato della mia vita, di roaming ho preferito l'aspetto "taccuino di viaggio" che la storia in sé.
vedere new york attraverso i disegni di mariko e jillian tamaki me l'ha resa più affascinante di quando non siano mai riusciti a fare foto o video della città, e questo probabilmente perché la vera osservatrice - quella che ci presta il suo punto di vista per "visitare" la città, è dani, l'unica con cui ho empatizzato.
ho trovato zoe e fiona spesso - per non dire sempre - insopportabili, ho desiderato per tutto il tempo trascinare dani fuori dalla storia ed evitarle il dolore che prova chi viene lasciatə al margine. le ho voluto bene, davvero, per tutto il tempo in cui nessun'altrə, nella storia, l'ha fatto.


forse, roaming è un fumetto da adolescenti, forse è un fumetto da adolescenti di "quel" tipo, forse sono semplicemente troppo vecchia per queste cose o forse sono rimasta troppo uguale a quell'adolescente che in viaggio voleva solo vedere i musei, scattare le foto, divertirsi con le amiche e comprare i souvenir.
forse semplicemente non sono la lettrice giusta per roaming perché, per tutto il tempo, ho desiderato quello che desiderava dani: un altro viaggio, un'altra storia.

venerdì 8 novembre 2024

gli aghi d'oro

per la madre irlandese che vagava a battery park, con la sua creatura senza vita ancora stretta al seno; per il bottegaio italiano che aveva appena venduto l'ultimo avanzo di carne equina guasta agli occupanti delle baracche abusive erette ai margini della distesa di cantieri stradali oltre l'ottantesima; e per tutti gli altri nel mezzo - i poveri la cui povertà era tale che presto ne sarebbero morti; i delinquenti la cui delinquenza non offriva una protezione certa dalla povertà che aveva cercato di sfuggire; i mediamente agiati e moderatamente rispettabili; i moderatamente agiati e molto rispettabili; e i ricchi, la cui ricchezza era tale da non doversi preoccupare della rispettabilità - per tutti loro l'anno del signore 1882 era cominciato.


una new york fumosa e decadente, un quartiere di oppierie e bordelli, conflitti tra due famiglie agli antipodi dello spazio sociale, una matriarca spietata e desiderosa di vendetta e, soprattutto, lo stile travolgente di michael mcdowell e le macchinazioni perverse che sa far mettere in atto ai suoi personaggi. già con blackwater, mcdowell mi aveva completamente catturata, adesso con gli aghi d'oro si è guadagnato la mia devozione assoluta (e, non so se avete visto la notizia, a gennaio uscirà un altro suo romanzo, katie, e io sto già facendo il conto alla rovescia!).

il tempo de gli aghi d'oro è l'intero 1882, il suo spazio il triangolo nero, il più malfamato tra i quartieri di new york, regno incontrastato di ogni vizio e peccato. mcdowell ci mostra una lunga carrellata della città all'alba del nuovo anno, dai vicoli più miserabili, pieni di bambinə mezzo assideratə che cercano di scaldarsi sulle grate degli scarichi, e di donne e uomini disperati che sopravvivono a stento in mezzo a ogni possibile declinazione del concetto di crimine e tra le peggiori privazioni; a quelli più raffinati e ricchi dove la new york bene si ubriaca di buon vino, gli uomini stringono alleanze utili alle loro carriere, le signore, infagottate nei loro abiti eleganti, ricevono i loro ammiratori nei ricchi salotti, la servitù corre da una stanza all'altra e lə bambinə rimangono confinatə nelle nursery.

tra l'opulenza più sfrernata e la corruzione più nera, due famiglie le cui sorti si erano già intrecciate si sfidano in una guerra che si fa sempre più aperta: gli stallworth, tra i più illustri e rispettabili (il maschile sovraesteso è voluto) cittadini di new york su cui domina la figura sottile, bianca e severa di james stallworth. il vecchio, arcigno patriarca è anche il più conosciuto giudice della contea, che deve alla sua mancanza di flessibilità e pietà buona parte della fama della famiglia. il resto della notorietà degli stallworth si divide tra lə figliə di james, edward - avvocato mancato e pastore di anime - e marian, l'elegante signora ben inserita in società il cui miglior risultato nella vita è stato sposare duncan phair, l'avvocato che tanto era mancato in famiglia a james. infine, la terza generazione del nome stallworth è nelle mani di helen e benjamin - figliə di edward ed entrambə parecchio problematicə per il padre quanto per il nonno, sebbene per motivi differenti - e dellə piccolə edwin e edith phair, consideratə dalla madre, marian, poco più che un'estensione poco interessante di sé stessa.

nel triangolo nero, invece, domina - come figura praticamente speculare a james stallworth - quella di lena shank, conosciuta come "black lena" per i suoi abiti neri che riprendono il colore dei suoi capelli e dei suoi occhi. immigrata di origini tedesche, l'imponente, grassa e inflessibile matrona è un punto di riferimento per tutto il triangolo nero oltre che per le sue figlie e per lə nipotə. intorno a lei gravitano louise, la muta e forzuta figlia maggiore, abile falsaria, e sua sorella daisy, "creatrice di angeli" per le signore timorate di dio, "abortista" per le altre.
ella e rob, lə gemellə figliə di daisy, sono lə temibilə e abilissimə tuttofare del clan shank, capaci di passare inosservatə, di nascondersi in mezzo allə altrə bambinə del triangolo nero e di estendere il controllo e la volontà di black lena per tutti i vicoli del quartiere.

james stallworth non si ricorda di black lena, per lui è solo una dellə tantə criminalə indegnə che proliferano nel triangolo nero, ma lei conosce benissimo il giudice: anni prima, è stato stallworth a fare impiccare suo marito, a farla marcire in carcere per sette anni e a toglierle le bambine, recuperate soltanto dopo che, lontane dalla madre, avevano subito una vita miserabile e violenta, che a louise era costata persino la voce.
lena shank non ha mai perdonato stallworth ma adesso la fiamma dell'odio si è riaccesa e splende più feroce che mai.
con l'aiuto di duncan phair, di suo figlio edward e del giornalista simeon lightner, james stallworth ha deciso di indire una vera e proproa crociata contro il triangolo nero: portare alla luce l'immoralità, la criminalità, i vizi e le deviazioni dellə abitantə del quartiere, sbatterli sotto gli occhi della borghesia bigotta per turbarla e spaventarla e, a quest o punto, porsi come il salvatore dell'ordine morale della città, punendo lə criminalə in modo esemplare e guadagnare in stima e consenso, così da portare voti al suo partito e aiutare il genero nella sua scalata politica, che porterà lustro (e soprattutto soldi e potere) al clan stallworth.

mentre ci racconta la guerra tra stallworth e shank, mcdowell si prende tutto il tempo per mostrarci la città, lasciarci immergere nei suoi odori e nei suoi ambienti, ci mostra il passare delle stagioni e ci permette di esplorare gli animi dellə suə personaggə come fossero anche loro parte dello scenario. la scrittura di mcdowell è incredibilmente cinematografica, sa far vivere allə lettorə l'esperienza di essere dentro la storia, dentro i suoi spazi e i suoi tempi ma anche dentro alle figure che in quello spazio-tempo si muovono, amano e odiano, tradiscono, complottano, gioiscono o soffrono, uccidono o vengono uccisə, abbandonano le loro speranze o mettono in atto piani di vendetta.
è questa sua capacità di ritrarre lə personaggə a tutto tondo - unita a quella di saper creare trame articolate che si sviluppano su tempi narrativi sempre serrati, senza momenti vuoti, in cui pure le pagine più descrittive sono funzionali a immergerci nella vicenda - a rendere i suoi romanzi così appassionanti e indimenticabili.

ma, oltre a tutto questo, gli aghi d'oro ha una forte caratterizzazione politica e sociale che blackwater non possiede, o almeno non in modo così netto.
lo scontro tra shank e stallworth è una riproduzione in scala della lotta tra classi sociali, tra poverə che non trovano altra alternativa a una vita criminale e dissoluta e ricchə che giudicano gli effetti della povertà stessa senza mai prenderne in considerazione le cause.
è nelle parole e nei gesti di helen stallworth che tutto questo si esplicita quasi come fosse un manifesto: la ragazza è l'unica consapevole che il degrado del triangolo nero non è una colpa morale dellə suə abitantə ma solo l'effetto di politiche socio-economiche discriminatorie, e che l'idea punitiva di giustizia di suo nonno non soltanto non può risolvere il problema ma non fa che esasperarlo, radicalizzando l'odio e il bisogno di vendetta di chi non ha fatto altro che subire per tutta la vita.

mcdowell esplicita il contrasto tra le due fazioni polarizzando al massimo le differenze, anche fisiche, tra lə personaggə: lena shank è scura, grassa e tozza lì dove james stallworth è alto, bianco e quasi emaciato; nel clan shank abbiamo quasi tutte personagge femminili (l'unica eccezione è rob, ma il suo essere maschio non è determinante nel racconto), tutte donne forti e determinate, mai assoggettate al potere maschile - anche nella loro vita relazionale non ci sono uomini: lena è vedova, daisy ha due figliə ma nessun marito e louisa è, anche se non viene mai detto esplicitamente, lesbica - e circondate di donne altrettanto libere dai dogmi sociali sulla femminilità, come le pugili charlotta kegoi o annie leech, pet margery, o, soprattutto, l'affascinante cognata di lena, maggie kizer, piena di amanti ma mai sottomessa o legata a nessuno di loro.
maggie kizer, nonostante la sua bellezza, la sua classe e la sua capacità di muoversi con naturalezza fuori e dentro il triangolo nero, rimane marginalizzata - e colpevolizzata - all'interno nella società borghese bianca di new york per via delle sue origini miste (un "ottavo del suo sangue" è nero). persino quando le fisionomie non danno facili indicazioni sull'appartenenza a una "razza" o all'altra, la società americana di fine '800 è brutalmente razzista e violenta, e quando il razzismo si fonde con la misoginia, i suoi effetti sono devastanti.

come in blackwater, sono le personagge femminili a reggere la narrazione, e oltre a quelle della fazione shank, ci sono tre personagge importanti anche tra gli stallworth - le uniche tre donne, oltretutto, della famiglia: helen, di cui ho già parlato, che se pure riveste la sua etica del manto della fede, trova nel messaggio cristiano quel suo nucleo davvero autentico che non le consente di rimanere inerte a bearsi dei suoi privilegi e che lotta - a suo modo, certo, ma lotta - per lə marginalizzatə e contro il volere del nonno e del padre. marian, invece, è la perfetta personificazione dell'idea di donna che corrisponde alla visione patriarcale e classista degli stallworth: obbediente con il padre, sposa un uomo la cui professione si allinea con i desideri dell'anziano genitore, si comporta da impeccabile signora di classe e padrona di casa. seguendo pedissequamente il modello femminile del suo tempo, marian ha messo al mondo due bambinə senza alcun desiderio né capacità di essere madre, non si interessa di loro se non per agghindarlə e mandarlə in giro come ostentazione del suo buon gusto e della sua posizione sociale, praticamente non lə conosce neppure. ed è per questo che quando edith, la figlia minore, diventa un tassello importante - per quanto sia una personaggia secondaria - nella narrazione e nella caratterizzazione del clan stallworth. il rapporto tra marian e edith è esplicativo di tutti i legami tra gli stallworth: una famiglia unita dalla volontà di mantenere il proprio prestigio e la propria ricchezza che vede nel legame di sangue un obbligo, un'opportunità, spesso anche uno scudo dietro cui nascondere la propria inettitudine, ma di certo non il motivo di una relazione affettiva.

insomma, per me gli aghi d'oro è una delle migliori letture dell'anno, un romanzo estremamente appassionante, quasi catartico nel finale, che riesce perfettamente a fondere la "leggerezza" della fiction insieme a tematiche sociali e politiche più dense, affrontate con lucidità e senza mai sbilanciarsi in spiegoni o sermoni morali.
aspetto katie, adesso.

mercoledì 30 ottobre 2024

commenti randomici a letture randomiche (89)

sembra proprio che io non possa godermi una settimana di fila senza che si scateni un qualche casino che minaccia di rimettere in discussione la mia vita ancora e ancora.
tutto cambia costantemente e sembra cambiare sempre in peggio, togliendomi ancora più energie e tempo libero, riempiendomi di ansia, rabbia e preoccupazioni varie.
ma, nonostante tutto, sono riuscita a leggere dei libri belli, e ora più che mai scappare dalla realtà rintanandomi dentro a una storia (che non sia la mia!), mi sembra il modo migliore di sopravvivere.
mi sono ritagliata qualche minuto qua e là per raccontarveli un po', si sa mai che magari non piacciano anche a voi.

 la congregazione reale di sua maestà 
bevvero dal calice finché i loro occhi divennero neri, dopodiché lei immerse le dita nella ciotola di tasso e tracciò un pentacolo sulle loro giovani fronti.
e mentre l'orologio del villaggio lontano batteva dolente l'una, cessarono di essere bambine e divennero finalmente streghe.

la congregazione reale di sua maestà è un romanzo d'evasione, sicuramente, che però sa dare bene un'idea di cosa vogliano dire parole come intersezionalità o transfemminismo. nonostante la storia che racconta sia appassionante e coinvolgente - e nonostante le tematiche di cui sopra sono il tipo di cose che adoro trovare in un libro - la prima volta che ho provato a leggerlo mi è toccato abbandonarlo. era un periodo così incasinato e brutto e pieno di ansie e cattivi pensieri che non riuscivo a immergermi completamente delle vicende di niamh, leonie, helena, elle e ciara, e di certo loro non si meritavano un'attenzione superficiale.
mi ha aspettata pazientemente per quasi quattro mesi e poi mi ha rapita completamente, trascinandomi in un'inghilterra alternativa in cui, dai tempi di anna bolena, esiste una congregazione di streghe che protegge il regno e lə suə abitanti, una congregazione che non deve più preoccuparsi dei cacciatori di streghe, di sante inquisizioni e fedeli troppo devotə, ma che non può abbassare la guardia davanti a divisioni interne, scismi e frammentazioni interne varie.

adesso però, la guerra è finita. quel conflitto che aveva distrutto tante vite - quelle di chi non era sopravvissutə, certo, ma anche quelle di chi era rimastə a contemplare le assenze - si era finalmente spento e la crsm sembrava essere entrata in un lungo periodo di pace e prosperità, nonostante alcune streghe avessero preferito fondare gruppi autonomi legati ai movimenti per i diritti civili e sociali di categorie marginalizzate, come la diaspora di leonie, che raccoglie streghe, e stregoni!, bipoc stanche del reiterarsi, anche all'interno della crsm, degli stessi meccanismi di prevaricazione e privilegio delle streghe bianche.
la pace e una sorta di equilibrio traballante tra la crsm e le congregazioni minori e più recenti, però, vengono facilmente messi in discussione da un evento inaspettato, per quanto annunciato dalle profezie già annunciate dalle oracole: un ragazzo - un maschio! - dotato di un potere magico così straordinario e potente da minacciare non solo la crsm ma le sorti dell'umanità tutta.
per quanto gli stregoni esistano, nessun uomo prima di adesso aveva avuto un potere simili, solo le streghe (femmine) erano dotate di simili capacità. per helena, gransacerdotessa della crsm e profondamente legata alla tradizionale divisione tra streghe e stregoni (che hanno una loro confraternita legata alla crsm ma autonoma), l'esistenza di una creatura del genere rappresenta una minaccia assoluta, un errore della natura, un abominio che minaccia la congregazione e ogni singola strega esistente sul pianeta.

se durante la guerra il vecchio gruppo si era sciolto, la nuova minaccia - una creatura che non dovrebbe esistere e che potrebbe liberare il leviatano, uno dei demoni più potenti e pericolosi degli inferi - in qualche modo le riavvicina tutte, facendo il cerchio intorno a helena.
ma theo, questo è il nome del ragazzo, non suscita lo stesso terrore in tutte loro e, anzi, niamh decide di prenderlo in custodia. capito che lui è semplicemente spaventato da un potere che non sa gestire e dalla totale mancanza di informazioni sulla sua stessa natura, niamh decide di diventare la sua maestra, aiutandolo a comprendersi al meglio e a superare i traumi di un'infanzia fatta di rifiuti e abbandoni. ovviamente, questa decisione genera una tensione ancora maggiore tra niamh - che da dopo la guerra si era ritirata dalla crsm - e helena, che esplode nel momento in cui theo rivela di essere in realtà una ragazza. da qui, oltre che intessere una vicenda dai ritmi serratissimi e avvincenti, juno dawson ci regala un'enorme lezione di transfemminismo, dando alla "cattiva" della storia caratteristiche che nascondono - neppure troppo! - il riferimento a una delle peggiori terf della letteratura inglese contemporanea (sì, proprio lei, non vi aspettate che scriva il suo nome perché non credo che si meriti nulla se non l'oblio).

al di là della trama, che vi lascio scoprire autonomamente perché è troppo appassionante e ben strutturata per meritarsi degli spoiler, dawson incarna nelle sue personagge alcuni archetipi femminili moderni attraverso cui raccontare, nel bene e nel male, la realtà quotidiana delle donne di oggi: leonie, fiera del suo essere nera e lesbica; elle, moglie e madre che preferisce distogliere lo sguardo da certe fastidiose verità pur di mantenere inalterata la sua felicità - costruita ad arte - domestica; niamh, che fatica a lasciarsi il passato alle spalle e a ricostruirsi un presente libero dai suoi fantasmi e traumi e, infine, helena, ancorata a delle convinzioni che la rendono cieca e insensibile a qualsiasi cosa che non rientri nei suoi rigidi e infrangibili schemi mentali.

quello che mi è piaciuto di più di questo libro è proprio il modo in cui dawson mostra - senza perdersi in pipponi - quanto siano inseparabili la sfera intima e personale e quella politica e quanto le scelte di chi è al potere, soprattutto se alimentate da un'incapacità di provare a conoscere, comprendere e accettare l'esistenza di qualcosa di diverso da sé, possano portare a disastri catastrofici.

quello che invece mi è piaciuto molto meno è che il finale chiede a gran voce di continuare la lettura del secondo volume della trilogia - the shadow cabinet, a cui poi seguirà il prossimo anno la pubblicazione di human rites, mentre in inglese è già disponibile lo spin off/prequel queen b - che però non è ancora stato annunciato. speriamo che mondadori sappia porre rimedio (magari portandoci tutti gli altri titoli della serie) entro il prossimo anno!

 la migrazione annuale delle nuvole 
non ce l'ho con dio. ma la gente deve essersi infuriata, a quei tempi. no? a vedere tutto quello che amava e che le era caro, tutto quello che trovava bello e buono andarle in pezzi davanti agli occhi; anche se metà o più di quegli eventi era diretta conseguenza dei loro comportamenti, si saranno chiesti perché un dio avesse fatto accadere il resto, perché non l'avesse fermato e fosse rimasto a guardare in silenzio.

credo che ornai sia diventato praticamente impossibile immaginare e scrivere del nostro futuro senza tenere in conto il cambiamento climatico e i disastri ambientali che stiamo provocando sul nostro pianeta. come possiamo immaginare quello che saremo tra una manciata di decenni senza provare a indovinare le conseguenze di quello che oggi stesso è sotto ai nostri occhi?
la migrazione annuale delle nuvole è ambientato in un futuro in cui il cambiamento climatico ha già distrutto non soltanto gli ambienti, ma anche le culture, per come le conosciamo.
niente più industria, sapere tecnologico praticamente perduto, cibo scarso e difficile da coltivare. a questa situazione drammatica - che riprende perfettamente le fila del genere, da la peste scarlatta, passando per la parabola del seminatore e la strada - si aggiunge il cad, un fungo parassita che invade corpi e menti, controllando le azioni e i pensieri dellə suə ospiti.

reid è una ragazza infestata dal cad, proprio come sua madre. vive in un piccolo villaggio in cui ogni energia è fondamentale a provvedere al sostentamento collettivo, un luogo in cui vecchi laboratori ormai inutilizzabili sono diventati rifugi per decine di persone.
il giorno che riceve la lettera di ammissione all'università, in uno degli ultimi avamposti in cui si è riusciti a conservare la civiltà pre-catastrofe - oasi in un deserto di disperazione, create durante la fine dalla parte più ricca della popolazione che quella catastrofe l'aveva causata - per reid si profila la scelta più difficile della sua vita: partire verso l'ignoto, verso un luogo che potrebbe anche essere solo una leggenda, una trappola, abbandonare sua madre all'inevitabile atroce destino voluto dal cad e, insieme a lei, tutto il suo villaggio, solo per seguire il proprio desiderio; o rimanere lì, rinunciando a tutto ma assumendosi ogni responsabilità come membro della comunità?

davanti alla prospettiva della partenza, il rapporto con sua madre si complica e si fa teso, ed è questo il tema centrale del libro, che premee mohamed sa far emergere molto bene e sa raccontare in modo credibile e attento.
la notizia dell'ammissione di reid rompe la diga che da anni teneva a freno i sensi di colpa, da un lato, e le accuse, dall'altro legate al cad: il fungo viene trasmesso di generazione in generazione, ed è stata la madre di reid - che a sua volta l'aveva ereditato da sua madre - ad averlo passato alla figlia, condannandola a non essere pienamente padrona della propria esistenza e delle proprie scelte. per sopravvivere, il fungo protegge lə suə ospite, prendendo decisioni in sua vece al fine di evitare situazioni di pericolo e per continuare a riprodursi, passando di corpo in corpo, senziente abbastanza da voler, probabilmente, colonizzare l'intera umanità.
il legame profondissimo tra le due donne è fatto d'amore, certo, ma non solo. il loro è un rapporto disfunzionale in cui i confini tra il ruolo di madre e quello di figlia si mescolano e si confondono, portando l'una a interpretare quello dell'altra e viceversa.

è per questo che reid, tra restare e partire, sceglie una terza strada: partecipare di nascosto a una pericolosa missione di caccia per garantire - se riuscirà ad avere una buona parte di bottino - a sua madre abbastanza cibo da poter avere delle scorte e poter fare degli scambi, per ripagare la perdita della sua forza lavoro.
ma come fare a partecipare a quello che potrebbe essere un atto suicida con un ospite che manovra il tuo corpo e la tua mente, chiedendoti di fare qualsiasi cosa per non uccidere entrambi?

nonostante l'ambientazione già sfruttatissima e il ruolo non abbastanza centrale dato al cad nella storia, questo romanzo mi è piaciuto moltissimo soprattutto per come mette in scena le dinamiche familiari di reid, il suo rapporto con sua mamma e con il resto della comunità. e se per tutto il tempo sembra di leggere una lunga premessa, è perché la migrazione annuale delle nuvole è solo il primo capitolo di una serie, cosa che giustifica il suo finale così aperto e sospeso. aspetto con ansia il resto della storia!

 cosa si prova 
«sono stata talmente e incredibilmente fortuna che mi sembra quasi troppo per una persona sola. adesso aspetto che arrivi la sfortuna!»

sono tornata a leggere sophie kinsella dopo anni perché venire a sapere della sua malattia mi ha davvero colpita e volevo, in qualche modo, tornare a sentirla vicina. i suoi libri, soprattutto la serie di i love shopping (praticamente l'unico modo in cui sono riuscita ad appassionarmi un minimo alla moda, quel tanto che serve da imparare almeno il nome di qualche brand), anche se non ne leggevo uno da un bel po', mi hanno sempre divertita moltissimo. erano la migliore distrazione nei momenti più difficili e stressanti e in qualche modo mi ero affezionata a becky e quindi, di riflesso, alla sua creatrice.

cosa si prova racconta la storia di eve, una scrittrice che trova l'idea geniale per il suo prossimo romanzo proprio quando, in difficoltà e senza idee, decide di fare una passeggiata e si ritrova davanti a un meraviglioso abito di paillette che la guarda tentatore da una vetrina.
non dovrebbe comprare quel vestito, non dovrebbe spendere quei soldi così d'impulso, non ha un'occasione per indossarlo e non dovrebbe neppure essere in giro a fare shopping, eppure non riesce a resistere. mentre la commessa avvolge l'abito sbrilluccicante, eve butta giù due appunti: scriverà di una ragazza dalle mani bucate che non riesce a resistere davanti a una vetrina troppo invitante.
il suo libro avrà un successo stratosferico e il vestito di paillettes sarà quello che indosserà sul redcarpet alla presentazione del film ispirato al suo romanzo. da quel momento lì, eve diventa una scrittrice di successo straordinario, una fortuna che si aggiunge a quella di avere una famiglia numerosa e piena d'amore. romanzo dopo romanzo, successo dopo successo, la vita di eve sembra essere un sogno, almeno fin quando non si risveglia intontita in ospedale e scopre di essere stata operata al cervello: le è stata rimossa una grossa massa tumorale e il suo futuro è più che mai incerto.

tra fisioterapia, perdita di memoria e messaggi di supporto, eve si barcamena tra momenti di ottimista fiducia nel futuro e altri di totale sconforto, mentre prova a riprendere il controllo del suo corpo e della sua mente. cosa si prova è strutturato in capitoletti brevi, istantanee di vita familiare raccontate con leggerezza e persino umorismo in cui la malattia è presente accanto alla gioia di vivere.

ovviamente, la storia di eve è quella di sophie kinsella, la storia della sua malattia e del modo in cui la sta affrontando. non una battaglia o una guerra - espressione che trovo veramente odiosa e offensiva nei confronti di chi vive situazioni del genere - ma un'imprevedibile sfortuna che da un lato spaventa, dall'altro rende ogni momento felice meravigliosamente luminoso, unico e felice.
non è facile parlare così di un cancro, soprattutto se è un cancro che vive dentro al proprio corpo, ma kinsella c'è riuscita con estrema grazia ed eleganza.
e, anche se non lo sa, leggere questo libro è un po' un modo per avvicinarsi a lei e dirle sì, ci sono. grazie per le risate e i bei momenti passati in compagnia dei tuoi romanzi, non vedo l'ora di leggerne ancora e ancora e ancora.


venerdì 18 ottobre 2024

il libro della scomparsa

«come se il buio li avesse inghiottiti. come se il mare li avesse rapiti». così hai descritto i tuoi giorni e la gente che era stata cacciata via al di là del mare. non hai detto che il numero di abitanti si era ridotto da più di centomila a circa quattromila persone. no, non lo hai fatto. hai detto, invece, che senza di loro non riusciti più a riconoscere la tua città.

leggere il libro della scomparsa allo scoccare del primo anno del genocidio in palestina - l'ultima fase, almeno, del genocidio, la più feroce e palese di settantasei anni di occupazione, l'unico genocidio della storia trasmesso in diretta e comunque ignorato se non addirittura giustificato dalle potenze occidentali - è stata un'esperienza dolorosa quanto illuminante.
al di là della trama, ibtisam azem parla di contrapposizioni assolute: esistenza e assenza, presenza e memoria, parola vibrante e ricordo sepolto.
il diario - contenitore prezioso di memorie lontane - e il giornale - quello che, un giorno dopo, è già carta straccia.
stretti nella stessa fascia di terra, schiacciati da leggi ingiuste e inumane, palestinesə e insraelianə si dividono il medesimo spazio-tempo, coesistono, senza riuscire davvero a vivere insieme, senza che una parte riesca a mostrare la sua verità all'altra, neppure quando tra alcunə di loro si creano dei legami.

alaa e ariel sono, in qualche modo, amici. vivono nello stesso palazzo ma si sono conosciuti per caso a una festa noiosa e, da quel momento, hanno stretto un rapporto che somiglia a quello di tantə altrə, fatto di chiacchiere e scambi di idee. eppure, nonostante abbiano imparato a conoscersi bene e si ritrovino a condividere un legame, non riescono a sintonizzarsi sulla stessa frequenza quando il discorso tocca la questione dell'occupazione, della nakba, di quell'evento che è insieme storia e presente.

è attraverso le loro parole, soprattutto quelle di ariel, che azem ci racconta della scomparsa.
succede in una notte qualsiasi, senza che niente potesse destare sospetti, senza clamore né agitazione. tuttə lə palestinesə dei territori occupati spariscono senza lasciare traccia.
il giorno dopo il paese sprofonda nel caos: scomparsə lə braccianti nei campi, neanche l'ombra di operaiə o autistə, chiusi i bar e i ristoranti. le case sono vuote, le tracce di una quotidianità inspiegabilmente interrotta restano sparse tra i piatti ancora da lavare, nei libri letti a metà, in mezzo alle lenzuola disfatte.
si direbbe che israele ha vinto.
dopo settantasei anni di occupazione, di guerre e di attentati, di trattati più o meno rispettati, di convivenza forzata, di odio quotidiano, il paese intero adesso è suo, lə arabə che da decenni cercavano di cacciare via sono andatə, chissà dove e chissà come.
vittoria! no?
in realtà no.

la scomparsa dellə palestinesə getta israele nel panico, uno stato di paura e agitazione, la sensazione di minaccia è, paradossalmente, aumentata: sono sparitə, sì, ma perché? come? torneranno? e allora cosa succederà? e se non torneranno, cosa dirà il resto del mondo? cosa farà? cosa faremo?
ma soprattutto, se non torneranno, cosa resterà di un popolo che da settantasei anni fa della dominazione di un altro popolo il suo motivo stesso di esistere?
le parole dellə personaggə israelianə, per tutto il libro, sono venate di vittimismo. quello della shoa non è solo il tremendo passato dei loro avi ma il tappeto sotto cui nascondere i crimini di oggi. e se pure di questi crimini lə israelianə non parlano mai apertamente, è facile scorgerli nella paura costante delle ritorsioni, delle cospirazioni che vedono ordite ovunque contro di loro.

occupazione e colonizzazione vengono romanticizzate nelle parole di ariel.
parole, è importante sottolinearlo, perché è lui - ariel - quello che può ancora parlare, quello che è presente. in quelle parole non c'è spazio per termini come sterminio, catastrofe, genocidio, crimine. si invoca un futuro di purezza e pulizia senza esplicitare il paragone tra lə palestinesə e le "impurità" di cui hanno necessità di liberarsi. le parole di ariel sono, per estensione, quelle di tutto il popolo israeliano: stessi termini, stessi pensieri, stessa dottrina.
neppure adesso che il sogno si è realizzato, israele riesce a guardarsi allo specchio e riconoscersi come invasore e colonizzatore:
perché le madri palestinesi mandano i loro figli a tirare le pietre o compiere atti terroristici contro di noi? non capisco perché insistono a venire ogni giorno ai checkpoint e combatterci [...] in base alla mia esperienza come soldatessa, ho la sensazione che ai palestinesi piaccia essere malmenati e torturati oppure picchiare e offendere gli altri. altrimenti non si spiegherebbe il fatto che insistono con tutta questa violenza.
le parole di una soldatessa che risponde a un'intervista sono agghiaccianti, quasi da distopia, eppure - lo stiamo vedendo da più di un anno - corrispondono alla reale percezione dei fatti. l'indottrinamento israeliano è così potente da distorcere la realtà, da creare un sistema tale di pensiero da trasformare la vittima in aggressore e il colonizzatore in vittima.
ma queste storie che ariel e lə altrə israelianə si raccontano sono utili, sono necessarie. hanno bisogno di crederci, hanno bisogno di credersi vittime, di credersi superiorə e civilizzatorə di un mondo arretrato e primitivo. la loro è una fede, rifiutano l'indagine per gettarsi a capofitto della fede cieca a un'interpretazione della storia - recentissima, praticamente della cronaca - per far fronte alla realtà delle cose.
con che coraggio ci si può guardare allo specchio e riconoscersi figliə e nipote di colonizzatori, assassini, coloni? come potrebbe ariel considerare suo nonno un vecchio inglese razzista e invasore, e non un eroico israeliano che ha messo in gioco la sua stessa vita per riscattare la sua terra promessa?
ariel dice di non sopportare le "lagne" di alaa e dellə altrə palestinesə e in questa sua insofferenza cela la paura di confrontarsi, il terrore di scoprirsi dalla parte del torto.
non è un uomo crudele, è soltanto un vincitore che non ha il coraggio di ammettere il prezzo della sua vittoria.

scompaiono lə arabə, si zittiscono le loro voci e, contemporaneamente, si alzano quelle dellə israelianə. chi dissente, però, dal pensiero comune di glorificazione dei padri fondatori e dei coloni, viene inevitabilmente considerato nemico della sua stessa nazione. è a uno di questi personaggi che azem fa pronunciare, verso la fine del libro, le parole che sgorgano spontaneamente dal cuore (almeno, a chiunque non abbia un cuore non corrotto):
se esistesse un premio per lo stato più moderno e razzista che considera se stesso una "democrazia", il nostro paese lo vincerebbe di sicuro. [...] dovremmo sbarazzarci del complesso della vittima. non siamo vittime!
e mentre giornali, radio e tv continuano il loro ping pong di accuse, paranoia e supposizioni, ariel legge il diario di alaa. l'ha trovato per caso, cercando in casa dell'amico qualche traccia che lo aiutasse a scoprire la verità sulla scomparsa impossibile di centinaia di migliaia di persone.
quel diario è l'ultima voce di tuttə quellə che sono scomparsə, di tuttə quellə le cui voci sono sempre state silenziate o ignorate. lə palestinesə non parlano, ricordano, e lo fanno nel silenzio delle loro menti.

se ariel è la parola che viene pronunciata con leggerezza, il suono - qui e ora - figlio dell'abitudine a ripetere ciò che una certa ideologia ha tramandato, è la parola scritta sulla carta da sue soldi del giornale, parola che dura un giorno, alaa è la memoria di generazioni, sedimentata nell'animo, nutrita dal tempo, dal silenzio, dalla conoscenza e dalla riflessione.
il grosso quaderno con la copertina rossa è, in realtà, una lunga, lunghissima lettera che alaa scrive alla nonna ormai morta. nel filo che connette nonna e nipote, si tiene in equilibrio tutta la storia della palestina dal 1948 a oggi, le parole - scritte in segreto - di alaa si trasformano in quelle di tutto un popolo inghiottito dal nulla.
della tua memoria mi tornano in mente alcune storie, che ho sentito o letto, o che ho inventato quando ero stanco. ho l'impressione che le storie più belle siano quelle che inventiamo. [...] quelle che viviamo sono mutilate, persino quel che ho vissuto io lo è. come se la mia memoria fosse una casa di vetro che, per quanto piena di incrinature come rughe, ancora si regge in piedi, non crolla. riusciamo comunque a vedere attraverso quel vetro, ma c'è qualcosa di offuscato, confuso [...] la confusione a volte è dovuta al dolore che è più forte di quel che riusciamo a mantenere nel ricordo. e così chiudiamo la memoria in una scatola nera nella testa e nel cuore, ma fa male, ci divora dall'interno, ci corrode giorno dopo giorno. ci corrode, sì. qualche volta mi domando perché provo tutta questa tristezza. da dove viene? e di colpo mi rendo conto di conoscere la risposta: la tua memoria mi fa male, e la mia mi pesa.
attraverso i paesaggi di giaffa/tel aviv, alaa racconta i brandelli di storia strappati alla memoria di sua nonna, la trasformazione della città e quella della vita dellə suə abitantə dalla nakba in poi.
è una memoria che scorre di generazione in generazione, attraverso i racconti tanto quanto dentro ai silenzi, alle metafore, al non-detto e al non-dicibile.
guardando tel aviv, si vede giaffa in trasparenza: la felicità perduta, la catastrofe e l'occupazione stanno tutte insieme contemporaneamente nelle stesse strade, negli stessi spazi. la memoria ricompone geografie urbane perdute, nomi di strade cancellati e sostituiti, scene ormai lontane nel tempo e che mai più saranno.

per ariel il passato è superfluo, il noioso argomento su cui lə palestinesə continuano a insistere e insistere, ma per alaa il passato è fondamentale.
sono le sue radici, la storia della sua famiglia, il motivo scatenante delle storie che sua nonna ingoiava per non lasciarle più uscire. il passato è la chiave che apre la porta sulla verità delle cose, ed è per questo che c'è chi vi si aggrappa con tutte le sue forse e chi, invece, lo vede solo come un ingombro fastidioso e fa di tutto per dimenticarlo e mistificarlo:
si ricordò che una volta [...] alaa era sbottato quando lui gli aveva chiesto di piantarla con quella storia che tel aviv era giaffa con le sue borgate limitrofe. doveva essere un uomo contemporaneo che guarda avanti e non si lascia ostacolare dal passato. [...] alaa era andato su tutte le furie come mai prima di allora [...] «cosa significa che devo essere contemporaneo? che devo distendermi a pancia sotto? che puoi fare a brandelli la mia dignità e io intanto dovrei applaudirti? quando capirai che tel aviv è la bugia a cui tutti hanno creduto? e poi giaffa non era solo frutteti, e se anche fosse stata soltanto un deserto, questa menzogna a cui avete creduto non ci dà il diritto di ucciderci e cacciarci. lo sai? se anche fossimo le persone più arretrate al mondo, questo non vi darebbe il diritto di espellerci! non vi darebbe il diritto di ammazzarci! andate a combattere contro l'europa che vi ha cacciati e uccisi!»
l'amicizia tra ariel e alaa è, in qualche modo, reale e sincera. ma è avvelenata dal sionismo e dalla bugia che ha riscritto la storia ribaltandola, provando a consegnare alla memoria dei nuovi ebrei israele come stato legittimo e lə palestinesə come occupanti. una bugia a cui hanno scelto di credere, giorno dopo giorno.

il diario di alaa stilla dolcezza e amarezza per la nonna e per il destino di un popolo intero, è imbevuto d'amore e di tristezza per ciò che è perduto per sempre. alaa scrive spesso "capisco", che si contrappone alla frase più usata dallə personaggə israelianə del libro "non capisco perché". facendosi contenitore dei ricordi che la nonna gli ha donato nel corso degli anni, accudendo le sue parole e suoi segreti, ereditando il peso della sua memoria, alaa si fa carico non solo dell'umanità schiacciata del popolo palestinese ma anche di quella ripudiata e abbandonata dallə israelianə a cui non importa altro che continuare a credere alla loro bugia, anche a costo di perdere sé stessə.
fa male leggere il tono paternalistico con cui ariel affronta i pensieri dell'amico, il senso di malcelata superiorità con cui affronta i suoi ricordi e le sue parole. essere meno mostruoso - come quando, da soldato, alza la voce davanti all'assassinio di un adolescente palestinese - lo fa sentire vicino ad alaa ma non abbastanza da comprenderlo pienamente.

quasi senza rendersene conto, come se fosse nel naturale ordine delle cose, ariel prende possesso della casa del suo amico scomparso, vìola il segreto del suo diario e dei suoi ricordi più intimi e non per cercare - anche se troppo tardi - di comprenderne il punto di vista, ma solo per avere materiale per scrivere i suoi articoli di giornale, per trovare lo scoop in questo gigantesco e incomprensibile caos.
la scomparsa dellə palestinesə è letta in molti modi: una minaccia, una liberazione, un sollievo, qualcosa di cui non preoccuparsi troppo. in nessun caso, mai, si alza dal coro la voce di chi vede come una tragedia epocale - neppure per l'eventuale paura che possa ripetersi e riguardare loro - la sparizione repentina e irrazionale di migliaia di esseri umani.
ibtisam azem non lo dice, ma il senso di tutto questo è chiaro.

non so se fosse questo l'intento ultimo dell'autrice, ma ne il libro della scomparsa ho voluto trovare un barlume di speranza, nascosto proprio come la nonna di alaa nascondeva i suoi ricordi e come alaa stesso nascondeva i propri sentimenti nelle pagine del suo prezioso diario.
quello che accade, la scomparsa dellə palestinesə, getta israele nel caos e toglie l'elemento chiave della sua stessa esistenza come stato occupante, coloniale e militarizzato. non ci è dato sapere cos'è questa scomparsa, come è avvenuta e per quale motivo, sappiamo solo che - nel romanzo - ha stravolto l'ordine delle cose.
quello che spero che accadrà - presto! - fuori dalle pagine di ogni possibile romanzo o giornale è che un qualche altro evento - forse altrettanto inimmaginabile e inspiegabile come la scomparsa - possa stravolgere l'ordine delle cose anche nella realtà, possa strappare il velo che riesce ancora a mistificare l'orrore e far crollare il peggior regime terrorista che ancora oggi insanguina strade, storie e memorie.